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IL DIARIO

IL COMANDANTE GIUSEPPE PORCÙ
IL LABARO DELLA 61a LEGIONE CC.NN. "CARNARO"


 

Larghi stralci tratti da

Torquato Dalcich
(Anagramma di Aldo Quattrocchi)

'Un diario'   (1944 - 1945)

FIRENZE 1987
(Inedito)

...O FIUME, TU SEI LA PIÙ  BELLA ...

FIUME – 4 OTTOBRE 1944 - ……” Un altro Dalcich nel mio reggimento, e non dispero presto d’averne una quarto….”. Evidentemente si riferisce a Franco, mio fratello, ignorando che, sin dal luglio si è unito agli “andartes” (partigiani greci). Il volto del Colonnello Porcù esprime la soddisfazione di chi (leggi smaccata retorica patriottarda, come ci ricordano certe tavole della “Domenica del Corriere”) può annoverare nel proprio reparto in armi ben tre componenti della stessa famiglia.

Ed io non ignoro quanto si è dato da fare perché rientrassi a Fiume anche se nessuno si è mai curato di chiedere la mia opinione a proposito.

Del resto quella di circondarsi di veri amici, fidati, è una riconosciuta usanza degli isolani, sardi o siciliani che siano, e il “Comandante” ha assoluto bisogno di poter contare su amici sinceri prima che sui sottoposti.

Sappiamo tutti come sia costretto a sostenere una guerra silenziosa contro i tedeschi che pretendono di asservirlo e in questa tetra città, lui, sardo “che…. Viene dalla bassa….”, non è molto stimato benché il destino lo abbia duramente provato. Ha perduto la prima moglie sotto i bombardamenti a Cagliari e la seconda, fiumana con la puzzetta sotto il naso, a me non pare provvista di molto buon senso visto che – il mio “vecchio” ed io invitati a cena – la vedevamo aggirarsi frastornata per la casa domandandosi “dove ho messo l’argenteria….”.

L’argenteria !…. come nei buoni tempi andati dimenticando che in questa città la gente vive alla giornata, assediata dal terrorismo e stremata dalla fame. O, forse, ignora che nella guardiola è di guardia un milite, Usai, con tanto di mitra tra le mani.

Fiume !…. Una pesante coltre, un’aura di sospetto, patemi d’animo, paura espressa dai volti dei suoi abitanti, terrore quando si capita nelle retate compiute dall’SS Capitano Kampf, un omarino segaligno ed occhialuto, giallognolo in faccia, la testa sormontata da un ridicolo cappello nero a padella.

Retate improvvise da quando, essendo state snobbate le Ordinanze del Gauleiter Rainer, i nazisti non hanno altra possibilità di rifornirsi di “mano d’opera”. Ecco un manifesto ben affisso in Piazza Regina Elena, bilingue (italiano e croato): “LE DONNE DAI 16 AI 45 ANNI E GLI UOMINI DAI 14 AI 60, SONO CHIAMATI AL LAVORO OBBLIGATORIO NELL’ORGANIZZAZIONE TODT, ESCLUSI QUELLI PRECETTATI PER IL SERVIZIO MILITARE”.

Io sono tra questi, sebbene gradinerei di più essere in Garfagnana o sul Senio, piuttosto che fare il poliziotto-servo dei tedeschi del 3°  M.D.T. 

 Il milite - disegno del S.Ten. Evelino Pizzarotti del 3° MDT

SEJANE -  7 ottobre 1944 – Ho raggiunto in mattinata questo squallido paesetto della Ciceria, il che non vuol dire che ne abbia i requisiti perché “NON” esiste più da oltre cinque mesi ed il luogo non offre che desolanti macerie, risultato di un “raid” uso Wermacht . Allora cos’è Sejane ?  Alcune baracche in legno e bandone ondulato che “ospitano” un centinaio di esseri umani, uomini e donne, rastrellati, adibiti a pesantissimi lavori di fortificazioni, come scavare trincee, bocche da lupo, camminamenti, ecc…. sprovvisti di indumenti adatti alla stagione e nutriti con pappine schifose di segala, carote e rape marce. Razioni ridicole di mera sopravvivenza ed io ed i miei soldati ci vergogniamo come ladri allorché, sotto i loro sguardi, consumiamo il nostro rancio.

Con un sottufficiale tedesco occupiamo due casotti in pietra e assi d’abete. In uno, ammucchiati su castelli a tre piani, i militi con un sergente mio aiutante; nell’altro, con Fritz (chiamerò così il nazista, per comodità) a parte della armi e delle derrate, ci sono io.

Una brandina e tre coperte. La cosa che mi rode è il non potere parlare con “i lavoratori”; solo Fritz impartisce ordini e a noi non resta che fare la guardia in quota contro improbabili attacchi partigiani.

Dico improbabili perché nessun titino attaccherebbe i propri confratelli. Mi si rivolta lo stomaco e non credo che ci resterò molto in questo maledetto luogo, anticamera dell’inferno.

L’intera zona, dopo che tre paesi sono stati devastati e la popolazione internata, è disseminata di mine, così i campi sono zeppi di patate non raccolte ed a me frulla in testa un’idea.

Col telefono da campo mi metto in collegamento con il mio Comandante di Compagnia, tenente Aurelio Piesz (Relly, per i suoi), per esporgli la mia intenzione. Questo Relly è un fegataccio, un veterano dei Balcani, fiumano, ottimo “Dolmetscher” (interprete tedesco), un ragazzo col dente avvelenato per i “druze”  gli hanno assassinato il padre a Gorizia, il 12 settembre del ’43.

FIUME – 12 ottobre 1944 – Un ordigno esplosivo deflagra al Comando di Polizia tedesca. Lievi danni e solo sospetti sull’attentatore, che potrebbe essere uno dei tanti mercenari sovietici incorporati nell’esercito nazista.

Stamani ne ho combinata una delle mie: procediamo con ordine. Con un carro tirato da un ronzino ho accompagnato alla stazione ferroviaria di Pattuglie due militi febbricitanti. Tifo o no devono andare in ospedale, a Fiume, ma non ci sono treni se non una locomotiva a vapore con “tender” sul binario per la città.

Prego il capostazione di consentire ai miei uomini di montare sul “tender”, visto che nella cabina ci sono, oltre al macchinista, due manovali. Non daranno nessun fastidio, si tratta di una emergenza. Ma Sergio (???), dal rosso cappello, mi risponde secco che è contrario ai regolamenti. Insisto in nome della comune nazionalità (si tratta di un veronese), ma, ahimè, non potevo commettere errore più madornale: il nostro ferroviere è sì italiano ma slavo di sentimenti e idee politiche. Lo seppi in seguito dal sostituto Signor Fontana, pugliese e galantuomo.

Allora – la vaporiera era sul punto di partire per Fiume – invito i malati a montare in cabina e Sergio, viso congestionato, intima al macchinista di scendere. A nulla valgono le proteste, ma il capostazione “cattivo” non sapeva che Dalcich, maestro il ferroviere Vinello, sapeva guidare una locomotiva a carbone.

Così, fremente di rabbia, monto in cabina e parto dopo aver addirittura tirato la fune del fischio.

A Fiume sono stato aspramente rampognato, ma visto che in qualche modo ero stato offeso nella mia dignità d’ufficiale, il collega del Comando Militare di Stazione (Sottotenente GNR R. Novarino, fucilato a San Matteo – Castua – nel maggio 1945) non ha steso rapporto.

 Zona di operazioni

FIUME – 15 ottobre 1944 – Arresti e severe misure repressive, deportazione compresa, per chiunque si sottragga “al servizio di guerra” imposto dall’Alto Commissario Rainer.

C’è un preciso motivo mormorato nei corridoi della Caserma di Scojeto: è ipotizzato uno sbarco degli anglo-americani nell’alto Adriatico e per fermarli necessita un mini-vallo a ridosso della città, e così a Sejane giungono altri rastrellati e parecchi – le donne specialmente – indossano vestiti di cotone col freddo boja che fa da queste parti !  E non serve torcersi le mani.

Col mio vice, sergente maggiore W.H. (d’accordo con Relly) daremo inizio all’operazione “krompira” (patate).

Ciascun milite, mappa delle mine in mano, riempirà - durante il servizio di vigilanza – lo zaino dei preziosi tuberi e la sera, all’ora della distribuzione del misero rancio ai deportati, le distribuirò.

Abbiamo tantissima legna e un mezzo fusto di nafta ripulito a dovere, fattomi avere da Piesz. L’idea mi affascina…..

Il sole sta calando dietro il Monte Lome e sullo spiazzo, davanti le baracche, si forma una lunga coda: armati di barattoli e gamelle i “lavoratori” ricevono un’abbondante razione di patate lesse, buonissime.

Ma Fritz non è affatto d’accordo.

Chissà cosa diavolo gli è passato per la sua mente contorta visto che, avvicinatosi al pentolone, urla: “Basta così…. Rientrate negli alloggiamenti …. Avete già avuto il vostro rancio “.

Ed io, stupefatto: “Lo chiami rancio ? Neppure un neonato sopravvivrebbe con quelle vostre schifezze; lascia stare che si riempiano lo stomaco con le patate che presto, se non saranno raccolte, marciranno !”.

Nein, nein, nein….“. Ed io, rosso come un peperone: „Ja, ja, ja....”. I “lavoratori” si stanno, non sanno cosa fare e questo fino a quando Fritz non molla una pedata al pentolone rovesciandolo. E loro, i “lavoratori” (tra i quali c’era anche un ex capitano degli alpini) mi sogguardano come a voler dire: “Codardo ! …Basta un cafone tedesco a fartela fare nelle brache; ti sei ammosciato come un palloncino sgonfiato….”.

Ma non andò così. A pensarci, credo che sia stata in parte la mia natura fiammiferina, il ricordo dei tanti nostri soldati abbandonati tra la neve in Russia, le umiliazioni di una resa senza colpo ferire fatta di centinaia di migliaia di uomini finiti nei “lager”. Insomma, io tapinello, semplice filetto dorato sulla manica, mollai a mia volta un calcione suscitando una risata colossale, irrefrenabile, cui seguì un silenzio carico di pericolosa attesa.

Gesto spettacolare, considerati i tempi, e il nazista, roteando gli occhi e bestemmiando “Ach mein Gott, sacramento ….”, si precipitò nella baracca a telefonò a Castelnuovo, sede del comando zonale delle SS.

Quando, sbollita la rabbia, mi resi conto della gravità del fatto, immediatamente – e cioè prima che la situazione degenerasse – mi apprestati “dignitosamente” a tener testa a chiunque m’avesse chiesto ragione del mio atto. Infatti, circa un’ora dopo, giunse nientemeno che il Capitano Kampf. Gridava in modo isterico, ma per mia fortuna ignoravo la lingua germanica e i suoi ululati mi lasciavano freddo specie dopo che l’interprete, un altoatesino, compitava lentamente i reprimenda dell’hauptmann. Ma, quando schiumando per il mio serafico atteggiamento, mi ordinò di prendere la mia roba e seguirlo, allora no, allora risposi (raccogliendo tutto il mio coraggio) che non l’avrei seguito, perché: “Sono un ufficiale italiano, qui siamo in Italia e prendo ordini esclusivamente dal mio Comandante…”.

Occhiate da incenerire e la promessa che sarebbe presto ritornato; il che voleva dire accompagnato da un nerbo di scherani. Eppoi, i miei uomini non avrebbero permesso che mi portasse via.

Qualcuno aveva già preso posizione piazzando il mortaio da 81mm, puntandolo sulla strada per Mune Vele, località dalla quale sarebbero arrivati i tedeschi di stanza a Castelnuovo.

Allora non mi restò altro da fare che cedere il comando al mio vice e lasciare il caposaldo. La notte già incombeva e Suonecchia, il posto di guardia più vicino, distava almeno tre chilometri. Tre chilometri al buio, armato solo della Beretta, nell’uniforme della Milizia. Non c’era di che stare allegri !

E peggio andò quando raggiunsi Suonecchia. Il Tenente Stroligo, spaventatissimo, mi consigliò di continuare per Giordani, perché: “… e tu credi che farebbe differenza per i crucchi prelevarti qui, anziché a Sejane ? Metti nella peste me…” Era verissimo. E così io (“col cavallo di San Francesco”) m’incamminai velocemente, con la morte nel cuore.

Come Dio volle raggiunsi la piccola stazione ferroviaria e trovai persino una tradotta per Fiume. Alle due del mattino mi buttai come un sacco sul mio letto, in Via Milano, ma cosa sarebbe successe “dopo ?”.

FIUME – 16 ottobre 1944 – Strapazzato senza misericordia dal Maggiore Gigi Capellini che scuote la testa sconsolatamente: “….ma sei pazzo “ Prendere a calci un militare tedesco….”. Se Gigi – non direttamente interessato – è fuori di sé, che mi dirà allora il Colonnello Porcù  ?  Accidenti al mio caratteraccio ! Perché non ho obbedito al vecchio adagio che consiglia di contare sino a dieci prima di scattare ?

Il Maggiore delle SS Von Goohl, ufficiale di collegamento con il 3° MDT, esige subito scuse e punizione, accusandomi, addirittura, di sabotare lo sforzo bellico.

Il Comandante, invece, se ne sta zitto a esaminarmi, le mani sul tavolo, la testa ben eretta e non segue per niente il gesticolare di Von Goohl.   Sabotaggio ?

Si, perché non si ridicolizzava un soldato tedesco di fronte ai civili, specie ora che, prove alla mano, si sa che gli Alleati si preparano a sbarcare in Istria e investire Vienna dal sud. Lo dicono tutti; Patton – Generale americano – ha messo a disposizione per la suaccennata operazione, uomini e navi ad Ancona.

“Hai malmenato un tedesco ? Si ?  Bene, da domani raggiungerai la sottostazione elettrica di Pattuglie e ne assumerai il comando …”. Porcù dixit…..

MATTUGLIE – 20 ottobre 1944 – Il primo approdo giuliano dei Dalcich.

Dei conoscenti ed amici, dei Di Carlo, Tiribilli, Dotti, non c’è rimasto nessuno. Il “Nido” dell’O.N.M.I., la clinica dov’è nata la mia nipotina Rory, è ora il comando della 2a  Compagnia Arditi del 3°  MDT.  Un’aria cupa e deprimente, benché la stagione sia splendida; poche facce conosciute che non ti degnano nemmeno di un saluto “grazie” alla divisa che indosso.

Un frettoloso “ciao” da parte di Mara Serdoc, di Lella (è la prima, l’amica di Arbe), oppresse dalle giornaliere preoccupazioni e dalla paura provocata da tanti strambi eserciti. Il nostro, paludato ormai solo di nero, quello nazista, persino un reparto di “nediciani”  (prendono il nome del generale serbo collaborazionista Nedic) e, di notte, carducciani “Lurchi fuor dalle tane”, i titini assetati si sangue, comunque.

Pensare che quando giunsi in questa landa – un ottobre di tre anni orsono – ero felice, prorompevo di gioia convinto d’aver trovato il vero paradiso dopo gli orribili sconvolgimenti subiti a Padova, sotto le bombe inglesi.

Ma ero un povero sognatore ed ora sono un consapevole robot cui si chiede di uccidere. Mattuglie !… Il mare ai miei piedi è immutabile nei suoi colori verdognoli, la vegetazione superba ed incantevoli sono le coste della riviera e le isole del Golfo. Dietro Veglia, raggiunta con gli occhi della fantasia, la mia Arbe. Un groppo alla gola impossibile da ricacciare perché, come nasconderlo, io amo quella terra, tanto più se non è la mia.

MATTUGLIE – 22 ottobre 1944 – Prima “sortita” armata per me, su allarme. Mio fratello Niny mi ha già ragguagliato sulla procedura: un motociclista reca l’ordine del Comando di Compagnia e nel caposaldo si procede alla “cernita” degli uomini che parteciperanno al rastrellamento.

A mezzanotte circa ci si raduna nel cortile della sottostazione attendendo i camions che dovranno scaricarci nella zona “infetta”. Armi leggere e tute mimetiche, ai piedi soprascarpe di feltro – ricavate dalle “lanterne” dei Carabinieri – per attutire il rumore della marcia sulle pietraie.

A fari spenti si procede sulla Statale 14 e ci si accoda ad un reparto tedesco di SS proveniente da Castelnuovo (o da Trieste).

Qualche volta – perché di queste puntate ce ne furono parecchie – partecipano anche una ventina di GG.FF. (Guardia di Finanza), nonché due grossi cani pastori alsaziani che hanno il compito di uccidere i loro simili per evitare che abbaino mettendo in allarme i “druzi” (compagni) dormienti nei casolari.

Si procede faticosamente in fila indiana, ben distanziati per non farsi cogliere dal tiro falciante del nemico che potrebbe aspettarci, evitando le strade, i crinali, scartando le valli aperte. Ci si muove esclusivamente di notte e il giorno ci si defila aspettando il calar del sole per proseguire, freddo o pioggia che sia.

Questo mostruoso modo di agire ci è stato imposto dalla tattica avversaria, dalla guerriglia che non si espone mai quando teme d’aver la peggio. Serve a qualcosa ? Ho avuto modo di dubitarne.

Quando si raggiungono gli obiettivi, il nemico non c’è più. Tutto denunzia la sua presenza, ma gli uomini capaci di portare le armi, non ci sono; solo donne, vecchi e bambini ed una risposta, monotona e scontata: “Dov’è tuo marito ? Dov’è tuo fratello ? Tuo padre ? ….” – “Prigioniero in Sardegna !”. Non è vero, ma come la boccaccesca novella, se non ci credete, assodatelo !

FIUME – 24 ottobre 1944 – Bellissima domenica ottobrina e, PER ME GIORNATA DEL TUTTO PARTICOLARE. Oggi, mi recherò, con la pimpante e simpatica conoscenza d’Arbe, la Katia Nicolich, nella più esclusiva e famosa pasticceria della città: Panciera, in Viale Camicie Nere, che (in tutta segretezza) ti fa gustare delle squisitissime paste alla crema e la Katia, perennemente affamata, ne ingolla mezza dozzina. E come potrebbe essere diversamente col suo misero stipendio di maestra, costretta a vivere in tuguri fatiscenti ? Ma la nostra lusignana (di Lussino) è tutta straordinaria ed io, oltre ad ammirarla sconfinatamene, nutro per lei il medesimo affetto che ho per le mie sorelle, benché sia una donna desiderabilissima, colta e d’una intelligenza non comune.

MATTUGLIE – 26 ottobre 1944 – Grazie a “Pino”, il Comandante, ho arraffato una licenza di cinque giorni più il viaggio e parto per Milano, per riabbracciare le donne Dalcich. Partirò con il “vecchio”, che, scovato un sacchetto di sale, prezioso ed introvabile sul mercato ambrosiano, non vede il momento di recapitarlo in Via Ramazzini.

Il Colonnello Porcù ci consegna una lettera per il suo collega Colonnello Balzella, suo superiore in Albania, che ora comanda la G.N.R. a Brescia. Un compitissimo gentiluomo (che tuttavia non trovò rispondenza nei gaglioffi cho lo imprigionarono dopo il 25 aprile. Pur essendo innocente di tutto, fu bastonato sino al punto di perdere la vista e poscia fucilato sugli spalti del Castello).

FIUME – 30 ottobre 1944 – La Medaglia d’Oro Carlo Borsani, cieco di guerra, tiene una conferenza in città, al Teatro “La fenice”. Devo ricordarlo perché ho appena finito di leggere il suo libro, “Eroi senza medaglia”, traendone tantissima commozione (anche lui come Valzella, benché cieco, fu trascinato fuori dalla sua casa e assassinato il 29 aprile 1945. Morì stringendo tra le mani la scarpetta della sua bimba di soli sette mesi).

MILANO – 31 ottobre 1944 – “Ciancio”, diminutivo di Franco, fratello di mio cognato e commissario di P.S., mi procura all’anagrafe una carta d’identità, che – in seguito – si rivelerà utilissima. Inoltre mi invita a togliermi l’uniforme perché è davvero insolito che un ufficiale della G.N.R. giri disarmato. Ed ha ragione. Qui a Milano, più che altrove nel nord, le azioni del S.A.P. (Squadre di azione patriottica) si moltiplicano con un crescendo pauroso. È facile restare ucciso per strada, magari abbattuto da un “innocente” ciclista. Si respira aria di disfatta nella capitale della R.S.I., nonostante il capoluogo lombardo pulluli di milizie di ogni genere: le “Brigate Nere”, la “Muti”, le “SS italiane”, la “G.N.R.”, la “X Flottiglia MAS”.

Certi milanesi sono stanchi e non soltanto a causa delle bombe alleate, ma, soprattutto, per le privazioni per una guerra che non accenna a finire e, se possono, si scatenano rabbiosamente.

Personalmente, in quei tre giorni, ne ho fatto un’amara esperienza. Entrato in una bar per sorbire un caffè (un surrogato), sono stato ignorato dal cameriere, volutamente. Ero in divisa, in pieno centro – mi pare fosse Via Larga – e ho dovuto, con la coda tra le gambe, lasciare il locale sotto gli occhi beffardi d’una irridente, popputa cassiera.

Così mi sono deciso ad indossare un vestito di Filippo, mio cognato. Non è finita. Passando per Corso Vittorio Emanuele ho assistito alla sfilata di un reparto della X MAS (si trattava del Battaglione “Lupo” diretto al fronte, in Romagna).

Un poveraccio che applaudiva è stato coperto di sputi dagli astanti ed io, prudentemente, mi sono allontanato. Adesso capisco quanto siamo odiati !

Ieri, 30, la radio brevemente ha comunicato che Zara è stata occupata dalle bande di Tito. La notizia era già nell’aria, ma come non rattristarsi per la perdita dell’ultima nostra roccaforte di Dalmazia ?

Immediatamente il mio pensiero è corso ai commilitoni zaratini del 2° btg. M. “Venezia Giulia”, ai dalmati della Compagnia Vukassina (dal nome dello studente – granatiere zaratino Antonio Vukassina, Medaglia D’Oro al valor Militare, caduto il 7 giugno 1943, difendendo il retroterra di Zara dai partigiani comunisti slavi), che mai potranno ritornare nelle loro case e mi sono venute alla mente le parole del loro struggente canto.

“Il 30 ottobre i tedeschi abbandonano la città. Gli slavi la occupano il giorno successivo. Non trovano resistenza. La distruzione di Zara continua con le deportazioni e con le esecuzioni capitali. Uomini e donne scompaiono senza ritorno. Sugli alberi del retroterra compaiono le liste dei condannati con la precisazione: “L’esecuzione è stata eseguita”. La morte viene data per fucilazione, per annegamento, per impiccagione e per lapidazione.

Ecco alcuni nomi: Antissimi Miro, ragioniere presso la Prefettura, annegato in mare; i fratelli Bailo, costretti a scavarsi la fossa prima della fucilazione; Benevenia Lucio, annegato; Calmetta Cristofaro, ucciso a sassate, Calmetta Alessandro e Matteo, costretti a scavarsi la fossa prima dell’esecuzione; Cattich Antonio, annegato; Cerlienco Maria, vedova Sabalich, affogata nel mare di Diclo; Cubrich Michele, impiccato a Torretta di Zaravecchia; professor Fiengo Vincenzo, fucilato nel cimitero; gli industriali Luxardo Pietro e Nicolò, quest’ultimo con la moglie, trucidati per annegamento in mare; Sorrentino Vincenzo, Prefetto, fucilato a Sebenico nel 1947; Vicina Pietro, farmacista, annegato con una pietra al collo assieme a cinque membri della famiglia, compresa una bambina di otto anni (ma riuscì a trascinare con sé uno degli aguzzini).

Due sole testimonianze per indicare il clima di terrore instaurato a Zara.

Il Sottotenente Antonio Calderone in una deposizione del 6 aprile 1945 racconta: “Dopo che nella giornata del 7 e 8 novembre 1944 furono fatti uscire dai sotterranei della Caserma Vittorio Veneto, una ventina di agenti di P.S. ed una trentina di civili, furono trasportati assieme ad altre venticinque persone nell’isola di Ugliano con un trabaccolo. Dopo che i partigiani accompagnatori hanno consumato il pranzo e bevuto abbondantemente, vengono invitati i primi 25 a lasciare i loro abiti e rimanere solo con le scarpe, i pantaloni e la camicia. Eseguita tale operazione tutti vengono avviati lungo un sentiero terminante in un precipizio a picco sul mare, già ovviamente prescelto per l’esecuzione, e qui massacrati come cani. I cadaveri finiscono nel burrone. Liquidati i primi, i partigiani predetti tornano indietro per eseguire la stessa operazione con gli altri. Difatti, anche questi vengono invitati a togliersi gli abiti e a rimanere solo con gli stessi indumenti come i primi; mentre le vittime si spogliano, vengono raccolti tutti i documenti ed ogni sorta di carta tenuta dagli agenti di P.S. e si procede alla loro distruzione con il fuoco. Questo secondo gruppo, come il primo, viene avviato per lo stesso sentiero, ma prima di raggiungere la località predisposta dai titini per l’esecuzione, l’agente Nigro Luigi, con altri colleghi di robusta costituzione, assale uno dei partigiani sottraendogli il MAB (moschetto mitra) e dopo una confusione tremenda, mentre il Nigro cade sotto le raffiche dei “Druzi” col grido di: “VIVA L’ITALIA” sulle labbra, un altro – non meno coraggioso – spara sui partigiani accorsi. Nella confusione tre degli agenti si tuffano dal precipizio in mare ed uno di essi, l’agente ausiliario Bestini Alessandro, riesce a salvarsi raggiungendo a nuoto un’isola vicina….”

Altra testimonianza: “Il 25 luglio 1945, il Capitano Ghirin Ernesto inviò una relazione alla Presidenza del Consiglio, nella quale narra, tra l’altro,: Nel novembre del 1944 venne fucilato Costa Ermenegildo, custode della Banca dalmata di sconto, padre di ben dieci figli. La moglie del predetto, recatasi a bordo di un incrociatore inglese alla fonda a Zara, chiese assistenza. Dopo essere sbarcata in Riva Cereria con i viveri ricevuti da costoro, venne presa dai titini e buttata in mare. Gli stessi marinari inglesi, che avevano assistito alla brutale scena, la trassero in salvo e, sotto buona scorta, l’accompagnarono alla propria abitazione”. (Rocchi don Flaminio, “L’esodo dei Giuliani, Fiumani e Dalmati”).

Una statistica pubblicata nel 1946 dall’avvocato Gavino Sabadin, che visse a Zara e che fu il primo Prefetto di Padova dopo l’ultima guerra, ci offre i seguenti dati da tenere a mente:

Popolazione di Zara prima della guerra 21.372
Fucilati dai tedeschi 11
Deportati in Germania 165
Morti sotto i bombardamenti anglo-americani 4.000
Uccisi dagli slavi 2.000
Prigionieri di guerra 161
Profughi dopo il conflitto 13.500

Perché tanta furia devastatrice contro questa minuscola città che non era né una base navale né una fortezza militare e non possedeva industrie belliche ?

Al centro della Dalmazia, Zara era un floridissimo “enclave” tutto italiano. Le famiglie slave erano solo dodici. Dunque una spina nel fianco della Jugoslavia, un’isola veneta di incomparabile bellezza di fronte all’arretratezza del circondario e al grigiore di altre città portuali – già della Serenissima – divenute sotto il dominio croato scali semilevantini. Per questo andava sacrificata.

Nel raggio apocalittico di distruzione e di morte, anche la piccola, indifesa Zara fu presa di mira, spietatamente. Ma, nel nostro caso, per la verità, non tutta la colpa di quanto accadde (56 incursioni aeree in un anno) va attribuita agli anglo-americani.

Si potrebbero raccogliere, a tal proposito, testimonianze quanto mai precise, delle quali farò cenno, sulle responsabilità parallele, anzi maggiori, degli slavi.

Furono essi, spinti da un odio atavico, reso più crudo dall’esasperazione della guerra, a volere la pressoché totale distruzione di Zara. O meglio, per non generalizzare, furono i capi del movimento titino – comunista che ereditarono nel loro sangue, dalla vecchia “intellighenzia” monarchico conservatrice del giovane regno “mosaico” jugoslavo, l’avversione all’Italia, a far colpire a morte una minuscola città che essi consideravano una spina nel loro fianco, solo perché gli abitanti di quella città avevano il peccato d’origine di essere e di professarsi fieramente italiani.

L’unica eredità, infatti, che la nuova classe dirigente jugoslava raccolse di buon grado dalla vecchia, fu l’odio e il disprezzo verso la maggior civiltà nostra, proprio perché la nostra civiltà significava necessariamente superiorità nei loro confronti, ed essi questa superiorità non volevano ammetterla”. (Antonio Cattalin, “I bianchi binari del cielo”).

Zara è perduta, per sempre. Poi toccherà, forse, a Fiume, a Pola, a Gorizia, a Trieste. Ciò significa che io (e la nostra parte) dovrò tra breve affrontarli quegli “annegatori”, impiccatori, fucilatori, lapidatori e sarà tremendo, ma più terribile sarà uscirne vivi, sopravvivere alla catastrofe incombente, perché nessuno si illude di poter sfuggire alla sorte che già su di noi si addensa funerea. E se ci sarà dato di scamparla qui, cosa ci attende al di là dell’Isonzo ?

UNO SQUARCIO POST MORTEM….

La Signora Verna Jurkic Girardi, polesana, vice ministro dei beni culturali della neonata Repubblica croata ha affermato – maggio 1992 – che: “Distruggere i monumenti di Zara e della Dalmazia, significa non solo insultare la civiltà di una città, di una regione, di un popolo, ma anche la civiltà tout-court”. Da quale pulpito ignobile arriva la predica ! Non ha sentito il bisogno di ricordare che il primo “insulto” ai segni della civiltà latina e veneziana in Dalmazia fu portato nella notte tra il 1° ed il 2 dicembre 1932, con la distruzione dei Leoni marciani di Traù, voluta dal Governo jugoslavo che premiò il Comandante della efferata spedizione, capitano Ivo Ancic’, con il cavalierato dell’Ordine della Corona jugoslava.

Seguirono altri leonicidi in tutta la Dalmazia, tra i quali quello del più maestoso dei Leoni di Traù, meravigliosa opera dello scalpello di Nicolò Fiorentino. Il secondo “insulto” ai segni della civiltà latina e veneziana – questa volta di Zara – fu portato dall’aviazione americana nel corso del breve conflitto italo-jugoslavo del 1941.

Il giorno 9 aprile di quell’anno, in un breve ma intenso bombardamento, venne distrutto il Teatro Vecchio e del Conte, mentre – per un vero miracolo – non venne distrutta la Biblioteca Paravia, sfiorata da una bomba, i cui preziosi manoscritti formano ancora oggi il nucleo centrale della Naučna Biblioteka di Zadar (?!). seguirono, dal 2 novembre 1943 al 31 ottobre 1944, su Zara i 54 terribili bombardamenti anglo-americani voluti da Tito, che rasero praticamente al suolo la cittadina distruggendo anche il prezioso Battistero, senza contare gli sfregi apportati dalla canaglia ai Leoni marciani di Porta Marina, opera illustre del Sammicheli.

Questi titini hanno degni emuli anche dove si ritiene che una “superiore” civiltà possa arrestare, in nome della pietà, l’assassina mano del fratello.

Se ripenso con quale batticuore a febbraio del ’43 non vedevo l’ora e il momento di lasciare Padova per raggiungere la sospirata …Oasi di pace !.

FIUME – 3 novembre 1944 – Sbucando improvvisamente tra i colli di Santa Caterina e Tersatto, proprio sulla cartiera, alle cinque del pomeriggio quattro – cinque caccia bombardieri americani bombardano il naviglio da guerra tedesco ormeggiato al molo Genova. I cannoni delle navi aprono il fuoco e uno degli aerei si allontana lasciandosi dietro una lunga scia di fumo.

FIUME – 4 novembre 1944 – Dalle 7,30 alle 8,20 una trentina di Douglas Bomber USA – forse irritati per l’insuccesso del giorno prima – picchiano sul porto a ondate successive, seminando la morte tra gli operai. Affondato un piroscafo in disarmo, fermo nel bacino di carenaggio, una motozattera e altre piccole imbarcazioni.

MATTUGLIE – 5 novembre 1944 – In mattinata – in un vile agguato preparato sin dalla sera prima a qualche metro dalla sottostazione elettrica – un milite, Avelino Mikulich, ex caporale del Genio, è assassinato dai “druzi”. A venti passi dal luogo c’era una casermetta tenuta dai “nediciani”, ma costoro, pur avendo udito la fitta sparatoria, si sono ben guardati dall’intervenire, dando addirittura tempo ai partigiani di portarsi via il cadavere (che non fu mai più ritrovato). Opinione condivisa: quando si scanna un italiano, rossi e bianchi si alleano.

FIUME – 6 novembre 1944 – A ritmo crescente si susseguono gli attacchi aerei terroristici sulla stremata città. Tre ondate il 5 con 125 morti e centinaia di feriti, soprattutto a causa dell’affondamento della motonave “Roma”, ferma al molo Longo, e di una torpediniera tedesca.

Il 6 oltre 50 morti e un centinaio di feriti nella zona retrostante la Stazione ferroviaria, lo scalo marittimo del Punto franco, la Manifattura Tabacchi. Si intensificano di pari passo gli attentati ai treni da e per Trieste. La tratta presa di mira è quella tra san Pietro del Carso e Poggioreale. Nell’ultimo attentato si registra un altissimo numero di vittime, più di 50, dei quali 20 fiumani, essendo gli altri bagarini d’Oltre Ponte (Sussak). È per me incomprensibile l’accanimento dei titini contro i loro confratelli in tutto.

Sanno perfettamente che i convogli militari, truppe o merci, oltre a marciare a bassa velocità sono preceduti da una staffetta formata da un carro – pianale colmo di pietrisco. Oggi ne ho sentita una che mi ha lasciato di stucco: i mitragliamenti effettuati da “Pippo ferroviere” sulla Statale 14 sono opera di piloti badogliani, cioè italiani.

MATTUGLIE – 12 novembre 1944 – Altra sveglia repentina. Neppure il tempo di lavarci il viso. In gran fretta prendiamo il posto su due Lancia R.O., battendo le scarpe per il gran freddo, che è così intenso all’esterno da costringerci ad indossare sull’uniforme qualsiasi cosa possa tenerci al caldo !

Una sessantina di soldati tratti di forza dalle furerie e addirittura dalle cucine, per poter dare il cambio a chi ha già superato il numero di uscite consentito dalla rotazione.

Sono frastornato e molti militi lo sono più di me. Per quel che mi è dato di vedere, alcuni se ne stanno a testa china, appoggiati sulla spalla del compagno vicino, gli zainetti a terra, e tengono le mani ficcate sotto il bavero dei cappotti, perché non tutti posseggono un paio di guanti. C’è chi, nervosamente, si stropiccia gli occhi e borbotta maledicendo i capi, la guerra, i tedeschi. Ed ho qualcosa su cui soffermarmi: la penuria di vestiario è tanto grande che alcuni soldati sulla camicia indossano maglie scollate dai colori più diversi e tutti, me compreso, a causa dell’infagottamento mostriamo toraci gonfi e brache appallonate.

Ci si sente, oltre che ridicoli, molto accattoni, perfino un tantino “clown” e dovremmo – stando alla propaganda – battere gli Alleati !

I camion traballano sulle carrarecce, il loro movimento concilia il sonno dei più giovani. Ce ne sono di giovanissimi; forse diciassette anni, anche meno. Tetamo ne conta solo 16. Ed io, ventenne, mi sento addirittura decrepito !

MATTUGLIE – 15 novembre 1944 – Allarme conclusosi con niente. I titini, nella tratta famigerata, hanno piazzato una mina a pressione sotto le traversine, provocando la morte di 60 innocenti viaggiatori. Benché svegliati per tempo, correre non è servito a nulla. I feriti, soprattutto, sono deceduti a causa del freddo polare. Inutile aggiungere che i soccorritori sono arrivati dopo quattro ore.

MATTUGLIE – 18 novembre 1944 – Una notizia che mi ha fatto sganasciare dalle risate. Recatomi a Trieste per prelevare del materiale di casermaggio alla “Beleno”, ho saputo che il Maggiore Ledo, il fustigatore dei “terroni”: <…che avevano spalancato le porte al nemico….>, ha disertato il Battaglione “M Venezia Giulia”, rifugiandosi tra i partigiani della Val d’Ossola.

Nel pomeriggio, due aerei, riconosciuti per Macchi, mitragliano una batteria tedesca piazzata sulla Riva Ammiraglio Cagni. Strepito tanto, danno nessuno.

FIUME – 20 novembre 1944 – Teatro “La fenice”, alle spalle della redazione del giornale “La Vedetta d’Italia”. Oggi si terrà uno spettacolo per le FF.AA. tedesche e italiane. Fra gli attori lo sboccatissimo – venerando – comico Cecchelin, che si esibisce con parodie, barzellette un pochino stantie e, soprattutto, allusioni alle minchionerie dei capi, Mussolini e Hitler compresi. Naturalmente ottiene grandi applausi e suscita risate ed ovazioni. (Ma il vecchietto non era poi così bravo e gioviale. Dopo la liberazione venne condannato a parecchi anni di galera – che non scontò – per aver assassinato con le sue “tremanti” mani due colleghi rivali in arte).

FIUME – 26 novembre 1944 – Una competizione alla buona, qualcosa che ricorda i “Ludi Juveniles” del passato regime, all’insegna dei “primi della classe”. Presiede la Commissione il professor Silvino Gigante, preside dello “Scientifico”. Ed io sono tra i primi dieci. Proprio così. Il collega Sottotenente Nicola Ferrara, editorialista a tempo perso della “Vedetta”, mi proclama – abbracciandomi – “enciclopedico”, invitando tutta la ghenga presente alla premiazione, a brindare per me. Così Niny, Relly, Stroligo, La Gattolla, il Maggiore Viola, detto “finestra chiusa” (è cieco d’un occhio”, “alzano il nappo” in mio onore. È presente anche Osvaldo Ramous, direttore della “Vedetta” (nonostante le tante “benemerenze fasciste”, nell’aprile del ’45 passò ai titini). Rientro a Mattuglie che, da circa due ore è stata spezzonata da un aereo. Bombe sulla Stazione.

FIUME – 1° dicembre 1944 – In località Pioppi violento e breve scontro a fuoco tra una pattuglia del nostro reggimento e alcuni gappisti. Il Vice Brigadiere Lucio Kalanich, vegliotto, colpito al capo, morirà in serata all’ospedale Santo Spirito. Prima di cadere colpisce a morte due assalitori, Giuseppe Duella e Mario Gennai, quest’ultimo ricercato per omicidio.

FIUME – 6 dicembre 1944 – Festa di San Nicolò. Il prefetto Spalatin ordina la distribuzione straordinaria di mezzo etto di frattaglie e di un etto di pane a testa, fuori tessera. Ai bambini, al di sotto dei sei anni, un quarto di latte. Una vera pacchia !

Il freddo è insopportabile e non c’è legna da ardere in città e questo, benché, Fiume sia letteralmente circondata da fittissimo bosco. Ma chi andrà a tagliarla ? L’ex collega, Tenente Vittoria, spingendo una carrozzina per bambini, si presenta in caposaldo e mi supplica di dargli un po’ di ciocchi.

Come faccio a negarglieli ?

Anche noi non scialiamo e per aver segato con i miei uomini un’annosa quercia nel cimitero di Smogori, ho dovuto litigare con un ufficiale tedesco lì chiamato dalla guardiania. Si è taciuto soltanto quando gli ho rinfacciato – a muso duro – la miseria cui siamo sottoposti, benché si rischi la vita proprio per loro, per i “nostri amati alleati”.

FIUME – 7 dicembre 1944 – Scoperta una bomba ad orologeria sotto il lungo banco di mescita del Caffè Centrale, in Piazza Dante. Se fosse scoppiata, a quell’ora stabilita, avrebbe fatto una strage di poveracci. Se anche questa è opera dei gappisti, riesco a malapena ad immaginare in che mani finirà questa città.

FIUME – 8 dicembre 1944 – Un ordigno esplosivo esplode in Via Mameli causando un gran numero di feriti tra i malcapitati passanti. Ma è un giorno da menzionare per l’improvvisa – anche se attesa – comparsa in sottostazione del Sottotenente Bruno Carletti (Brunello). Proviene dalla Scuola Allievi Ufficiali di Fontanellato ed è un pescarese. È, soprattutto, un entusiasta. Come anticipato, mi era stato preannunziato il suo arrivo da una ventina di giorni per sostituire il malandato mio vice, Maresciallo Raimondo Onzati, ex carabiniere, che ora potrà essere finalmente essere collocato in congedo. Carletto sostituirà Onzati anche nella mezza cameretta che occupo, assieme ai viveri a secco e ai pezzi di ricambio delle armi, nonché alle munizioni. Una tenda, ricavata da una coperta da casermaggio, divide il misero abituro.

MATTUGLIE – 13 dicembre 1944 – Oggi Santa Lucia, giornata particolarissima per noi Dalcich, vincolati ad un voto pronunziato da mia madre, quando, dodicenne, riacquistò la vista. Guerra o no, abbiamo sempre rispettato il suo volere ed io lo farò nonostante il contorcimento viscerale, perché a vent’anni si mangerebbe qualsiasi cosa.

Il milite Rosario Miccichè, catanese e valente sarto, mi ha confezionato uno splendido pastrano con: vecchio cappottane grigio-verde, canapina, sostituita dalla tela di uno zaino, bottoni tolti ad una tenda da campo, il tutto superlativamente ben riuscito. Dalcich, molto felice, compensa il “sartore” con lire duemila, pacchetti di tabacco tre, scatole sigarette zaratine due, dadi per giocare e carta da lettere. (Aggiungo che di sigarette ne avevo parecchie perché, semplicemente, non fumavo. Non mi vergogno di confessare che le vendevo sotto la Torre Civica a Fiume, come un qualsiasi bagarino. Dirò poi perché.)

MATTUGLIE – 21 dicembre 1944 – Intensi rastrellamenti nelle località dell’alta Istria, già passate al pettine durante il trascorso mese. Questa volta fa da battistrada un ufficiale delle SS, il Tenente Walther, ridanciano e coraggiosissimo, che suscita grande entusiasmo tra i nostri militi specie se – come ha più volte detto – li preferisce ai suoi per azioni rischiose.

MATTUGLIE – 24 dicembre 1944 – Si festeggia la Santa Notte anche nel nostro caposaldo. Brunello ha allestito un alberello (un ramo di ginepro), appendendovi, al posto dei doni tradizionali e della palle di vetro colorato, bombe a mano, pallottole, caricatori e altre macabre amenità.

Ma la vera grande sorpresa, inattesa, è stata riservata ai fiumani, che, per ordine del solito Spalatin, hanno ricevuto mezzo litro di marsala e altrettanto di cognac, più due etti di carne di manzo a testa.

Il prefetto s’è premurato di far conoscere che la grazia di Dio è un dono della R.S.I. (chissà come l’hanno fatta passare senza cascare nelle grinfie tedesche !). La sera si presenta alla porta carraia la Signora Tetamo, madre del giovane Luigi e ci consegna una focaccia dolce infarcita di uvetta e canditi, nonché un grosso pacco consegnatole dalla fiduciaria femminile del fascio fiumano, Signora Biancorosso. Contiene calze, dieci paia (e noi siamo ventidue….). il freddo non accenna a diminuire e la legna scarseggia. Il fatto è che non abbiamo un carro per poterla andare a prendere nel bosco, sopra Mucici. Inutile chiedere ai contadini; non ci presterebbero nulla, meno che mai i buoi per trasportarla.

Ho visto un paio di volte la Mara Serdoc. Se la passano malissimo, perché non hanno denaro per ricorrere alla borsa nera e così, tra il serio ed il faceto, chiede a me se non ho qualcosa da passarle, convinta – Dio sola sa perché – che noi militari ce la spassiamo allegramente.  Viviamo miseramente e più d’una volta m’è toccato di ricorrere al borsaro nero Ambrosich, padre di Ive (che il 12 settembre 1943 mi denunziò ai titini per farmi fucilare, quale italiano !), per poter scambiare le poche razioni di margarina e zucchero con pasta e patate.

MATTUGLIE – 27 dicembre 1944 – A proposito della Serdoc, Brunello è andato nel pallone ! Ha preso una cotta tremenda per la sorella di Mara, Anna, una rossa procace che io ho avuto la dabbenaggine di presentargli.

Ora, secondo il timido infuocato collega, dovrei fare da paraninfo. Ma l’approccio – tentato davanti al negozio dei Veranda – fallisce miseramente. La fanciulla non ha interesse alcuno ad impalmare (perché Carletti desidera sposarla) un misero sottotenente; ha ben altre aspirazioni, cinema compreso !!

L’innamorato si incupisce al punto da giungere alla fine della giornata senza rivolgere la parola a nessuno (quattro giorni dopo fu sul punto di commettere una strage e soltanto Iddio sa come fu evitata).

MATTUGLIE – 31 dicembre 1944 – Capodanno è di domenica. In casa Serdoc si fa festa e il salotto a pianoterra è zeppo di impomatati “nediciani” e così, benché non ci abbiano invitati, io e Brunello – divise pulite e stivali lucidati – ci presentiamo con una bottiglia di “Refosco”. Vogliamo solo porgere gli auguri e poi filarcela. Ma non appena varchiamo la soglia di casa, la faccia di Brunello diventa cinerea; ha visto il “suo” amore abbrancata strettamente ad un baffuto “porucnik” (aspirante ufficiale) serbo, ha subito portato la destra alla fondina della pistola e provocato la fine delle danze e sguardi sbigottiti.

Ho subito capito che non ci avrebbe messo un istante a tirar fuori la Beretta e a sparare. Il cuore mi batteva pazzamente, non sapevo cosa fare, eravamo con le spalle all’uscio ed i ballerini tutti disarmati. Per fortuna c’era chi non aveva perso la testa: Mara. Si è avvicinata e mi ha invitato ad uscire portandomi dietro lo spasimante. Così, arretrando, ho trascinato letteralmente Brunello sul ballatoio, mentre nell’interno della casa, una voce stridula chiedeva alla mamma di Mara perché mai ci fossimo presentati!

Tornammo alla sottostazione senza pronunciare parola, stappammo la bottiglia e ce la scolammo nel più assoluto silenzio, come si usa nelle più note tradizioni “consolatorie”. Non potevamo desiderare un Capodanno migliore !

MATTUGLIE – 2 gennaio 1945 – Un San Silvestro da seppellire senza rimpianti. Gelo e maltempo infieriscono su tutta l’Europa occidentale e in Italia, in particolare. Nel Belgio, dopo alcuni smaglianti successi, la Wermacht è bloccata dagli americani a Bastone e la Germania ora si prepara a combattere in casa. È il canto del cigno.

Le nuove strombazzate armi non esistono affatto anche se “Baffetto” parla sempre di ora “X”. Carletti ci crede ancora. Una cieca fiducia nell’uomo che ha incendiato il mondo intero. Se solo potessi andarmene, chiudere definitivamente con la guerra, salvare la mia povera vita…. Le giornate si succedono monotone, tra una partita a carte ed una svogliata passeggiata a Fiume o ad Abbazia. Concedo molti permessi ai miei scoglionati militi che, guarda caso, rientrano sempre !

MATTUGLIE – 7 gennaio 1945 – Il freddo non accenna a diminuire e ci è toccato “sortire” sia il 4 che il 5. S’è vagato sulle montagne tra la strada ferrata e la statale. La temperatura sull’altopiano è scesa sotto i 15 gradi ed in alcune zone la neve è così alta che ci si affonda sino al bacino. La bianca coltre qualche volta ci costringe a girare in tondo alla ricerca della via del ritorno. Si procede silenziosamente, in fila indiana, magari tenendoci aggruppati, i riflessi semi-appannati, stanchi da morire. E non serve a nulla. I titini hanno l’iniziativa. Ora riposano, come i serpenti. Attendono la primavera, quando cioè gli alleati arriveranno al cuore stesso della Germania.

Nella spianata d’un paesotto ho visto (e preso) per la prima volta un tricolore jugoslavo. Tornando alla sottostazione l’ho fissato al muro della cameretta. Triste, inutile trofeo.

FIUME – 8 gennaio 1945 – Stamani sulla litoranea Volosca-Borgomarina, all’altezza dello Stadio comunale, il milite Alberto Giusti è stato aggredito e ucciso a coltellate. Sull’alto muro di cinta, qualcuno, col minio rosso, ha tracciato una scritta: “NAROD U RATU, PASVI NJEZINI NAPORI TEZE ZA POBJEDOM” (La Nazione è in guerra ed è tutta tesa verso la Vittoria). Splendido !

L’assassinato, cinquantenne, aveva quattro figli ed era il portalettere del Reggimento.

MATTUGLIE – 11 gennaio 1945 – Ieri una squadra di baldi giovani militi, passando per Franci e Breghi, siamo scesi ad Abbazia. Era una giornata magnifica e c’era perfino un caldo solicello. Giunti al 40 Box, in Via Garibaldi, a me è saltata in mente la bizzarra idea d’andare a trovare il “Principe”, il folle buono conosciuto in tempi migliori.

Così, il “Reparto” marciante fieramente, ha varcato la soglia della Villa e ho chiamato a gran voce “S.A. Reale”, che – meravigliatissimo – è apparso sul portone di casa. Scattando sull’attenti ho presentato la “truppa” ed ho pregato S.A. Reale di lasciare la residenza e seguirci sino a Volosca, dove la corazzata “Nelson” attendeva per imbarcarlo e portarlo a Londra, ospite dei reali d’Inghilterra. Il milite Benco, che mastica un po’ di inglese, ha intonato il “God save the King”  mentre gli altri (accidenti a loro) non hanno più potuto trattenere le risa, fatto questo che ha provocato la comparsa della sorella del “Principe”, con relativo fuggi fuggi della “scorta” d’onore piuttosto ignominiosamente. Rifugiatici all’Hotel Palme, abbiamo brindato alla salute di S.A. Filipovich con del pessimo vermuth.

FIUME – 13 gennaio 1945 – Rapporto per gli ufficiali comandanti di reparto. È arrivato il Segretario del P.F.R. Pavolini, reduce da un giro “esplorativo” in Venezia Giulia. Forse nota le nostre facce, soprattutto quella scurissima di Porcù; senza perifrasi – com’è suo costume – il Comandante invita Pavolini a dire chiaramente se “questa è ancora terra italiana o tedesca, senza menare il can per l’aia, perché possiamo benissimo capire fino a che punto il discorso del Duce sia condizionato…”. Sembra che il discorso del Colonnello non piaccia al Maggiore Von Goohl, perché, non invitato, interviene per fare presente che “la Germania non ha interesse alcuno alla Venezia Giulia” e, lasciando tutti assai diffidenti, dopo che – è inutile rimestare – hanno più volte tradite le attese degli italiani per favorire i croati di Pavelic.

Pavolini assicura che “questa terra è italiana e resterà tale. Tra qualche settimana giungeranno forze fresche per garantire i confini. La XMas è gia schierata nel Goriziano…”.

MATTUGLIE – 14 gennaio 1945 – Nella sede della 2^ Compagnia pranzo per festeggiare il compleanno del Tenente Walther. Sono presenti una decina di tedeschi, ma, pur essendo indiscutibile la bravura del nostro cuoco, il cibo risulta immangiabile. “Che potevo fare con patate secche, margarina, verdure legnose, pane ammuffito…”. Ha ragione il nostro cuoco.

FIUME – 21 gennaio 1945 – Bombardamento aereo. Numerosi i morti. Per la prima volta in città non vengono distribuiti i generi alimentari tesserati. La scusa: i treni non funzionano e i camion sono requisiti. E non si trova niente neppure al mercato nero; troppo pericoloso avventurarsi nel Friuli. Il denaro non vale più nulla, qualsiasi cosa si baratta. Quanto durerà ancora ?

I Russi avanzano e sono già in Slesia.

GIORDANI – 25 gennaio 1945 – Cambio. Con oggi sono comandato alla casa-ridotta di Giordani, un complesso, già negozio del Signor Manfredi (scappato a Modena). La casa è praticamente in mano al “guardiano” Stjepan, ex granatiere di Sardegna, ma ora (ci è stato riferito da alcuni delatori) riconosciuto “politruk” (commissario politico) della zona. A me sta bene perché, abitando la moglie ed il figlio con noi, difficilmente saremo attaccati. Ai miei ordini una quindicina di militi, alcuni ex carabinieri, tutti desiosi di tagliare la corda alla prima occasione. Bisogna metterli al lavoro e per prima cosa farò costruire una piazzola per il mortaio.

Niente di peggio che lasciare poltrire i soldati !

A Mattuglie, mio fratello mi sostituisce nel comando della sottostazione.

GIORDANI – 28 gennaio 1945 – “Pippo” mitraglia e spezzona un treno merci all’uscita del tunnel di Ruccavazzo. I tedeschi di scorta scappano e la gente si precipita per ripulirlo. Trasporta tabacco e sigarette. Ne approfittiamo un po’ tutti, anche la Mara perché il tabacco si può scambiare.

GIORDANI – 30 gennaio 1945 – Purtroppo mi sbaglio; i militi di questo caposaldo sarebbe meglio perderli che trovarli. Alcuni sono delle vere canaglie, come un certo Naccherino, un catanese attaccabrighe e indisciplinatissimo, che non nasconde affatto i suoi sentimenti. Altri, rebus due, ex carabinieri, un ternano ed un veronese, dallo sguardo infido. Incomprensibile il mio vice, il Sergente Maggiore Zelko, detto “gambestorte” (non necessitano spiegazioni ). Forse se ne salvano un paio, ma non di più. Regna qui un’atmosfera di rassegnata attesa. Ho scovato una sentinella addirittura che dormiva….: “E’ stata una cascaggine, Signor Tenente….”.

GIORDANI – 31 gennaio 1945 – Ho condotto Rydy, figlio di Stjepan il guardiano, al di là della linea ferrata e gli ho insegnato a sparare col moschetto 91/38 da cavalleria.

Entusiasta ha esclamato: “Evviva…da grande voglio diventare granatiere di Tito…”. Ottimo. Il padre granatiere di re Vittorio Emanuele e il figlio della “Golubica bjela” (bianca colombina, cioè Tito, speranza e salvezza dei popoli jugoslavi).

GIORDANI – 1° febbraio 1945 – Il freddo e l’ignoranza causano una disgrazia le cui conseguenze potevano essere gravissime. Un milite ha tentato d’accendere la grossa stufa di maiolica servendosi di una boccetta di etere. Esplosione e fiammata che lo ha colto in viso. Ustionato orrendamente, bruciati capelli e sopracciglia. Per fortuna – acquartierato nella contigua Caserma Flondar – c’è un battaglione “nediciano”. L’assistente sanitario salva dalla cecità il malaccorto, ed io dovrò spedirlo a Fiume, in ospedale (e privarmi di un uomo).

Domani allargherò il campo di tiro per la mitragliatrice Breda dietro la fattoria e così ammucchierò un bel po’ di legna da ardere e farò lavorare i cialtroni. Sempre domani funzionerà un ordine di servizio permanente, elencante i nominativi dei militi preposti all’ispezione della linea ferrata da Ruccavazzo a Vele Lasi. E praticherò un foro sotto la finestra che s’affaccia sulla Statale 14 per potervi piazzare un mitragliatore in caso di bisogno. Se non faccio qualcosa, rischio qui di impazzire. Non riesco a scambiare due parole se non col mortaista, il napoletano Ciabattoni.

GIORDANI – 3 febbraio 1945 – A Prelose, in alta Istria, durante una puntata, il collega Tenente Balestra, comandante del caposaldo di Vele Lasi (3 km dal mio), cattura una staffetta partigiana, una ragazza piuttosto formosa, ma rifiuta di darla ai tedeschi, così – tutti d’accordo – finisce “Aiutante di cucina” al comando della 2^ Compagnia.

FIUME – 4 febbraio 1945 – Pesante bombardamento aereo condotto da oltre 130 fortezze volanti americane, a ondate successive, nella giornata di ieri. Ormai non fa più notizia, anche se i fiumani del caposaldo se ne stanno in silenzio, angosciati per la sorte dei parenti. Così altro non mi resta se non concedere permessi per la città.

Dalla mia finestra sul retro ho visto fioccare la neve, per ora strati larghi come ovatta.

Il monte Stanici è completamente incappucciato, tanto da confondersi con le basse nubi del mattino. Mai visto un inverno più freddo, nemmeno quando, nel gennaio ’42, eravamo a Sussak. Ma ora ho legna in abbondanza da quando, messi gli infingardi al lavoro, ho ripulito la dolina sotto casa. Stjepan, a proposito, si è lamentato adducendo a sua scusa che quegli alberi avevano più di cento anni….”Pazienza ! In primis, vivere!”.

GIORDANI – 5 febbraio 1945 – In mattinata mi sono recato a Fiume per “incoraggiare” Brunello che prendeva parte – calzoncini corti e scarpe da tennis – ad una gara podistica tra le varie FF.AA. della città. Partecipava anche Relly, che si è classificato quarto. Alla sera, visita inattesa in caposaldo di due poveracce, due “lavoratrici” della Todt fuggite dal campo tedesco di Zaluche. È commovente sapere che esistono ancora persone disposte ad accordarci la loro fiducia in casi disperati !

Dopo la cena le ho messe a letto (cedendo il mio) e domani le farò montare – vestite sommariamente da soldati – nella tradotta per Trieste. Alla faccia dei nazi !

GIORDANI – 7 febbraio 1945 – il collega la Gattolla mi avverte “confidenzialmente” che presto avremo l’ispezione del Comandante il CCIV Comando regionale, Generale Esposito. Urge “imbellettare” il fortilizio. In gergo militare significa dargli un aspetto guerresco e cioè farlo apparire come il fortino di Giarabub !

Raffiche di mitra e fucilate sulla facciata, avendo però cura di risparmiare i vetri (introvabili !). Così la mia “ridotta Capuzzo” assume un aspetto penoso ! Che farci ? La vita arcadica che vi si conduce, non incontra la simpatia dei nostri gallonati superiori.

FIUME – 8 febbraio 1945 – Il Comandante compie 42 anni e ci convoca per il pranzo nella saletta riservata di Panciera. Presenti la maggior parte degli ufficiali, ci siamo abbuffati come porcelloni, grazie all’apporto….. generoso dei rastrellamenti. Perché tacerlo ? Noi ci comportiamo alla stessa maniera dei nostri nemici. Rubiamo ciò che non abbiamo. Io – affamatissimo sempre – mi sono ingozzato di antipasti e così non ho potuto mettere altro nello stomaco. Che figura ! Ed ho anche bevuto a garganella.

GIORDANI – 10 febbraio 1945 – Sul costone ad est del Monte Lome, si scorgono due grandi falò. Segnali per gli aerei rifornitori o fuochi innocenti ? Di rumore in cielo se ne sente sempre e allora, a scanso d’essere presi per scemi, col mio mortaista Ciabattoni (detto “Scornacchiato”) spedisco due “pillole” in ghisa acciaiosa sull’obiettivo. Incredibile: un minuto dopo i falò sono spenti. Quel monte, assieme al Monte Maggiore, è sempre stato una roccaforte partigiana.

GIORDANI – 11 febbraio 1945 – Con decorrenza odierna le carte annonarie finiscono al macero perché non saranno rispettati i termini di consegna dei generi alimentari. I magazzini sono desolatamente vuoti. Il mercato Centrale e quello di Braida offrono esclusivamente poche rape, i bagarini più arroganti e pretenziosi che mai. Per dirne una: un chilo di pancetta affumicata costa 2.000 lire (lo stipendio mensile di una maestra, circa 1.800 !). Stanotte siamo piombati nei pressi dell’altopiano e a Tatre abbiamo sostenuto un conflitto a fuoco con i “druzi”. Sono scappati lasciando in una baracchetta coperta di frasche, due feriti. Al ritorno ero talmente stremato per la dura marcia sulla neve che mi sono trascinato sulle ginocchia sino alla strada nazionale negli ultimi duecento metri !

Il milite Rahtelli, detto il “Balilla” (sebbene abbia più di 60 anni), suscita risate a non finire, perché la sveglia – che aveva rubato – nel pieno della notte si mette a squillare!

GIORDANI – 12 febbraio 1945 – Con al seguito parecchi reggicoda, si presenta il Generale M.O. Giovanni Esposito. Salamelecchi, battute di tacchi, presentat’arm !  Il gallonatissimo m’appare grasso e roseo. Pasciuto e sorridente, mentre i “lecchini” sono pallidi e smorti. Sembra che lungo la strada siano stati attaccati da “Pippo”.

Umano. Dopo l’incidente capitato al Maresciallo Rommel in Francia, il 16 luglio dell’anno scorso, molti pezzi grossi preferiscono stare ingattati, ma non è il caso del “nostro”, che ha un curriculum militare di tutto rispetto. Intanto è Medaglia d’Oro. Io poi ho motivo di gratitudine nei suoi confronti. Praticamente ha salvato mio padre da morte certa nel 1941, quando fu catturato dai partigiani in Montenegro. La Divisione alpina “Pusteria”che lo trasse in salvo, era proprio agli ordini di questo Generale.

(Un doveroso cenno per un uomo che – trascinato dopo la guerra alla sbarra – dimostrò di non essersi mai macchiato d’infamia né d’aver piegato il groppone davanti ai tedeschi. Persino gli antifascisti gli riconobbero questi meriti).

<Gli uffici della Difesa territoriale italiana di Trieste erano agli ordini del Generale italiano Esposito, uno dei pochi generali decenti e fidati dei quali disponeva la R.S.I.

Rainer, alto commissario per il litorale Adriatico, pregò l’Alto Comando, per non offenderlo destituendolo, di farlo allontanare dalla zona d’operazione facendolo promuovere a un più alto incarico, sostituendolo  con un uomo di paglia, di modo che il Supremo Commissario potesse assumere poi gli Uffici della Difesa territoriale, ma non riuscì a realizzare il suo proposito, dato che il Generale Esposito rimase a capo del Comando Militare della Venezia Giulia per la R.S.I., sia pure con funzioni essenzialmente formali tali da affermare la continuità della presenza italiana nell’Adriatisches Küstenland, sino alla fine del conflitto e questo benché la sua presenza non avesse potuto impedire che i tedeschi effettuassero la chiamata alle armi di alcune classi per il “servizio obbligatorio di guerra e per il servizio del lavoro”> (ECollotti. “Il Litorale Adriatico nel Nuovo Ordine Europeo”).

FIUME – 13 febbraio 1945 – Paludato nel mio “scicche” pastrano, giunto in mattinata in città, ho prelevato Katia dalla sua ammuffita cameretta in Braida, l’ho fatta accomodare in treno e l’ho portata a Giordani. Esaudisco una promessa: invitarla a pranzo nel mio fortilizio.

Pranzo meschino, ma resto ancora sorpreso nel vedere come la “minuta” fanciulla “ingolli” ben due piatti colmi di “subiotti” mal conditi. E ne avrebbe mangiato degli altri se il cuoco non avesse portato via la pentola ! Mi piacerebbe sapere di cosa si nutre con quello che offre il mercato !

Una giornata diversa, con un bel solicello e una brezza dolcissima che veniva dal mare. Liberatici dalle preoccupazioni abbiamo “ciacolado”, ricordando gli amici di Arbe, sperando nel futuro, annaffiando le nostre lacrimevoli storie con una bottiglia di vino del Collio, donatami da Niny. E il milite Barbalace, un sentimentalone meridionale, ha cercato di …..rovinare l’incontro, pizzicando sulla chitarra alcune malinconiche “melopee” calabresi.

GIORDANI – 14 febbraio 1945 – Uno zazzeruto “cetnico” (irregolari serbi al servizio dei tedeschi) dall’espressione patibolare, mi chiede udienza e Zelko, ammiccando, funge da interprete. “Vedrà, Tenente, che le conviene”. Vuole concludere un “buon affare” con me, italiano. Mi offre oro per molto pane, sigarette e una pistola. Allettante, vero ? E dalla sdrucita “foffaika” (giaccone di pelle di capra) cava fuori un tubetto d’aspirine contenente protesi e denti d’oro…. Dio solo sa quanta gente avrà scannato per strapparglieli “ ! L’ho letteralmente buttato fuori tra lo sconcerto del mio Vice. Che altro mi toccherà vedere ?

FIUME – 15/21 febbraio 1945 – Con due soli giorni di interruzione, il 16 e il 18, la città è immisericordiosamente sottoposta a bombardamento da parte dell’Air Force America! 171 morti, oltre 300 feriti. Danni incalcolabili; centrati in pieno i semidistrutti Cantieri Navali, il Silurificio Whitehead, la ROMSA (Raffineria), la fabbrica Rivolta e innumerevoli caseggiati di Borgomarina e del centro. Colpito il cimitero di Cosala e scoperchiate centinaia di tombe; distrutta la chiesetta di San Michele. L’intera popolazione fiumana è in lutto. I nostri militi – assieme ai pochi vigili del fuoco – si prodigano per sottrarre alla morte sotto le macerie molti sventurati, ma il susseguirsi degli allarmi aerei spesso li costringe a cercare riparo dalle bombe. I sinistrati, con qualsiasi mezzo, vengono avviati agli alberghi della Riviera. Preoccupato per le sorti del mio “vecchio” e di mio fratello (è stata colpita anche la Caserma Macchi alle spalle di Via Milano), sono corso, il giorno 22, in città, all’Ospedale e ho visto i morti distesi sul nudo pavimento. I più sono sfigurati al punto da non essere riconoscibili; sono l’effetto delle bombe dirompenti, quelle ad aria liquida. Tra i cadaveri vi sono ancora alcuni soldati tedeschi allineati in bell’ordine a differenza dei nostri compatrioti, sconciamente ammucchiati dove capita, perfino nei corridori o nell’astanteria. A tanto lutto, va ad aggiungersi, auspice il Deutch Berater, l’arrogante pretesa del “Poglavnik” (Pavelic) di: “..voler assumere il controllo di Fiume…”. Una mossa abile, consigliata, forse, dallo stesso Gauleiter, dimentico d’aver più volte affermato che: “…Fiume è città italianissima…”. Niny mi confida che reparti sempre più consistenti di militari croati hanno già occupato alcune caserme e che un nucleo della “Ratna Mornarica” (marina da guerra) si è già stabilmente insediato proprio nella “Macchi”.

GIORDANI – 22 febbraio 1945 – Nel tardo pomeriggio inattesa visita del Comandante a cavalcioni di una moto “Guzzi”, seguito dall’immancabile Usai. Era reduce da Rupa. Lui non ha paura di affrontare da solo la Statale 14, non ha paura di niente.

GIORDANI – 23 febbraio 1945 – Ieri è stato abbattuto da una “Firling” (mitragliatrice a quattro canne tedesca) un aereo sul cielo di Zabice, pochi Km da Rupa di Elsane. Si trattava di un bimotore americano, un “Martin Baltimore”, ma la sorpresa è stato l’equipaggio: due piloti italiani ! Uno era completamente carbonizzato, illeggibile la piastrina al collo; l’altro era il Maggiore Massimiliano Erasi. È doloroso, ma ormai assodato: i nostri aviatori collaborano con le bande di Tito. Ignorano che, a guerra finita, questa disgraziata terra, per la quale sono caduti 600.000 italiani, ci verrà strappata ?  A che cosa è valso il loro sacrificio ?

Niny lascia Mattuglie; sarà sostituito da Brunello.

FIUME – 24 febbraio 1945 – Ancora bombardamenti e ancora morti. Molta gente abbandona la città, altri vagano tra le macerie in cerca di parenti. Nessuno si crea più illusioni.

GIORDANI – 25 febbraio 1945 – Una variopinta accozzaglia di “cetnici”, donne, uomini e bambini, sfila dinnanzi al caposaldo. Vengono dalla Lika e Dio solo sa quello che hanno passato. In testa al gruppo un “capellone” regge una bandiera nera sulla quale capeggia il motto: “ZA KRALJ I ZA SVOBODA” (per il Re e per la Libertà). Nonostante l’antipatia mi commuove una fede così grande, mi stringe il cuore quell’avanzare dimesso, da cani bastonati. E così ne combino una delle mie. Radunato in gran fretta il reparto faccio presentare le armi. E quell’accolta di straccioni, come per incanto, si ricompone, solleva il capo ed intona un inno marziale. Poveracci ! A me non è costato nulla e per loro è stato come un viatico, un conforto.

Con oggi il nostro Porcù deve cedere il comando del 3° MDT all’uomo di paglia di Rainer: il Colonnello conte Montesi Rigetti di Vergato, un cacasottomonocoluto che si è fatto accompagnare dalla “segretaria”, una vistosa biondina, certamente una battona (durante gli allarmi aerei si faceva servire il pranzo nel tunnel ferroviario di Scojeto. Che pena !). Un Comandante se ne va ed è la logica conclusione di un duello impari.

GIORDANI – 26 febbraio 1945 – Le ispezioni a binari e traversine ci riservano sempre sorprese e non tutte gradevoli. Per esempio, abbiamo trovato molte mine a pressione, sei per la precisione, nell’arco di un mese, ma abbiamo trovato anche una scatola di metallo con dentro mille lire in pezzi da cinquanta e…. mutandine di pizzo !  Risatacce e commenti. Le mine le ho consegnate a Zelko perché provvedesse a farle brillare nella dolina, ma lui ha nicchiato nel timore che potessero esplodere prima. Allora le ho fatte ammucchiare nella cantina del caposaldo tra la legna da ardere e Stjepan, pallidissimo, mi ha fatto presente che lui abita nella casa con i suoi ed io: “E allora ? Questa fattoria appartiene ad un italiano; è solo questione di tempo. Quando andremo via la farò saltare in aria !”.

Dimenticavo: il miglior cercamine, quello che un fiuto particolare, è il milite Totti, detto, appunto, “bracco”.

FIUME – 27 febbraio 1945 – Stazione Centrale. È un martedì, sul finire della giornata. Reduce da Scojeto (dove mi sono recato per ritirare lo stipendio), attendo un treno locale per rientrare in caposaldo. Mentre passeggio sotto la pensilina semibuia, una scarmigliata donna, ben vestita, il respiro affannoso, mi si avvicina e: “Tenente Dalcich, la prego. Non si ricorda di me ?”. E al mio sincero diniego: “Il suo babbo era amico di mio marito, l’ingegner Pace. Si incontravano a Padova, alla Birreria Italia. La prego, mi aiuti. Mio marito è stato ricoverato in ospedale a Trieste per un attacco di peritonite; non trovo nessun mezzo per raggiungerlo. Laggiù è in partenza una tradotta, la prego, la supplico”. Mi commuove, soprattutto ricordandomi di Padova, Via Cavour, e grazie all’accondiscendenza di un tentennante collega capo scorta, la metto sul convoglio in partenza. Pochi minuti dopo la partenza della tradotta, ecco sbucare, vociando, un gruppo di gendarmi tedeschi che si precipita nelle sale d’attesa, lungo le pensiline, nei gabinetti come nella lampisteria. Cercano qualche disertore, o, peggio, qualche disgraziato ebreo.

(Nel successivo settembre, proprio a Padova, qualcuno mi toccò la spalla e: “Tenente, non si ricorda di me ?” Ma certo era la moglie dell’ingegner Pace. “Si benissimo, come sta suo marito ?” Una risata a gola spiegata e: “Non ho marito; ho dovuto ricorrere alla sceneggiata per sfuggire ai nazisti che mi cercavano. Sa, io lavoravo per l’Intelligence Service in quel periodo….”).

GIORDANI – 4 marzo 1945 – Ho anch’io un disertore. Il lazzarone Naccherino è scappato ieri notte dopo aver sabotato il mitragliatore abbandonando il posto di guardia. C’era da aspettarselo e non è servito passare sopra a tante magagne. Sentite questa: fermava i ciclisti, poveri operai, sequestrava arbitrariamente le biciclette e, poi, - mi confida Barbalace – si faceva pagare il “pizzo” per restituirle !

Una vera canaglia, sempre pronto a mettere mano al coltello. Mi pento di non averlo consegnato alla giustizia militare, ma, tanto, credo che difficilmente ne verrà fuori. Se si è unito ai titini, con quella camicia nera, avrà ben poco da sperare. Stanotte, ho dovuto mettere in azione nuovamente l’81 e per motivi più seri dell’ultima volta.

Partigiani della brigata comunista “Budicin” hanno attaccato il caposaldo di Vele Lasi, comandato da Balestra. Si udiva lo sventagliare delle mitragliatrici ed alcuni razzi verdi d’una pistola “Veary” sono apparsi in cielo.

Così ho piazzato il mortaio, ho incodolato le granate col bravo “Scornacchiato” ed ho aperto il fuoco. Avevo le coordinate per il tiro e credo d’aver fatto un buon lavoro.

Dopo un po’ (erano circa le quattro), il rafficare delle armi automatiche si è taciuto ed ho potuto mandare una pattuglia in perlustrazione. Era proprio Vera Lasi, ma i rossi non hanno potuto sabotare la ferrovia, grazie anche al mio intervento.

FIUME – 7 marzo 1945 – Piazza Regina Elena, ore 12.00. Sono protagonista di un episodio rivoltante, indicativo dell’atmosfera che si respira in questa città agonizzante.

Mi sono azzuffato, come un volgare scaricatore di porto, con un passante, e in pieno centro. Ignoro i motivi per cui quel tale, accompagnato da una donzella, si è messo a dileggiarmi, ma avendo i nervi a fior di pelle, si fa presto a perdere la calma.

L’ho raggiunto, ha reagito ed io l’ho scazzottato. Sarebbe finita se ad un certo punto un signore non si fosse intromesso, strattonandomi. Dal “Bar Piva”, è uscito correndo un milite gigantesco, una specie di gorilla, ha agguantato il “signore” e l’ha gonfiato di ceffoni. Una rissa da angiporto e ancora me ne vergogno!

L’intrigante era addirittura il Console Onorario della ND.H. (Stato di Croazia) e Montesi Righetti mi ha inflitto una settimana di arresti, “puntualizzando” che lui non è Porcù.

Questi scontri sono ormai all’ordine del giorno; militari e civili si affrontano, mentre i tedeschi lasciano fare. La Katia, che frequenta certi strambi ambienti zanelliani (autonomisti fiumani) mi avverte di sorvegliare molto bene il babbo, perché (vendetta trasversale ?) intendono farla pagare a questi Dalcich, come se non ci pensasse già il monocoluto conte Righetti, che ci ha presi tutti in antipatia.

FIUME – 9 marzo 1945 – Era già prevedibile. Niny, che è stato confinato all’O.P. (Ordine Pubblico) del reggimento, tornando la sera a casa ha udito invocazioni d’aiuto provenire dalla caserma Macchi. Avvicinandosi ha scorto un nutrito stuolo di marinai croati che picchiava un giovane alpino di stanza a Santa Caterina. Male gliene è incorso; circondato dagli slavi ubriachi è stato a sua volta messo sotto e pestato di santa ragione. Temendo per la sua vita è riuscito a sfoderare la pistola ed ha sparato. Liberatosi una prima volta, è corso verso un’autorimessa militare e, strappato il MAB dalle mani della sentinella, ha fatto fuoco più volte.

Conclusione ovviamente tragica: due morti, qualcuno dice quattro, alcuni feriti, nonché immediato arresto di mio fratello. Il Colonnello Montesi, cui mio padre si era rivolto, lo ha messo alla porta con un: “Se suo figlio ha ragione, i tedeschi ne terranno conto”.

FIUME – 11 marzo 1945 – Sono agli arresti, ma io vado lo stesso. Me ne strabuggero delle conseguenze; voglio non solo rivedere mio fratello, ma liberarlo, a costo d’assalire il carcere di via Roma, dove i nazisti l’hanno rinchiuso ….. Così mi dicevo scendendo in città, ma non è stato necessario. Niny è stato liberato in mattinata con tante scuse. Perché ? E’ presto detto: ieri i marinai della “Mornarica”  hanno tentato di tagliare la corda portandosi dietro due zatteroni armati. Erano in collusione con i titini da un pezzo. Le batterie alpine li hanno preso “in forcella” e affondati prima che potessero doppiare Portorè. Trionfale ingresso di Niny (assai malconcio) a Scojeto e immediato trasferimento decretato dal monocoluto. Andrà in quel “paradiso” che si chiama posto fisso di Murie Vele. Oggi abbiamo, inoltre, appreso che i tedeschi hanno fucilato due gappisti: Ottavio Valich e Rodolfo Tomsich, quest’ultimo reo confesso dell’attentato alla trattoria “L’Ornitorinco” ! Altri undici gappisti sono stati passati per le armi a Sussak. Uno dichiara d’essere membro militare del C.L.N. fiumano.

FIUME – 12 marzo 1945 – Grandi retate di uomini, donne e ragazzi da adibire a lavori di fortificazione cittadina. Il “Deutsches Berater” annuncia che: “si combatterà strada per strada” ed impone la legge marziale ! Strada per strada ! C’è di che riflettere: ma chi si batterà ? I fiumani ? Sono già stati venduti. I tedeschi ? A quale scopo se gli slavi aggireranno la città ? I croati ? Buoni quelli…. Perché dovremmo farlo noi, visto che, comunque vada, saremo sempre considerati meno di niente dai fiumani, dai tedeschi e dai croati ? Se i tedeschi dovessero spuntarla grazie alle nuove armi, Fiume diventerà un grazioso porto austriaco.

Se, invece, (come tutto lascia supporre) sarà occupata dagli slavi, non un italiano resterà in città. Temo proprio che l’appello di Pachnek cadrà nel vuoto. Non mi batterò io, più che certamente. No, non ci sarà guerra all’ultimo sangue per Fiume. Almeno illudessero i suoi abitanti facendo loro credere nella possibilità di un plebiscito.

GIORDANI – 13 marzo 1945 – Stamane “Zelko” “gambestorte”, tenendolo stretto per la collottola e puntandogli dietro la grossa Glisenti, mi consegna un….. partigiano !

E se non lo era, ne aveva tutto l’aspetto. Sfinito, giallo in faccia, macilento, con le scarpacce sfondate, addosso un’uniforme color cachi stinta. Solo la bustina, d’un bel verde pisello, ostenta una stella rossa di panno. Ma è stato “pescato” dal sergente mentre attraversava la statale completamente disarmato. Chissà dove voleva andare. Ma non si fa pregare per dirlo. Si chiama Baveri, è di Volosca, marinaio catturato dopo l’armistizio a Canfanaro e inquadrato nei battaglioni lavoratori.

È disfatto. Teme che lo consegni ai nazisti, ma lui non sa che tra me e “Fritz” non corre buon sangue. Attacco al calesse di Stjepan il ronzino e me lo porto a Mattuglie, dopo averlo camuffato da milite. E Lino Pizzarotti l’accompagna proprio dal padre, a Volosca. Non so quale fine ha fatto, ma so quella del padre, capitano marittimo; fucilato dai titini nell’agosto del 1945.

GIORDANI – 15 marzo 1945 – Senza dare tregua si continua con i rastrellamenti. L’arteria principale, la Statale 14, deve essere assolutamente tenuta sgombra. Si scorazza nel solito triangolo Gabrega, Succorje, Prelose. Altri scontri avvengono ai mulini abbandonati di Tatre e per i “druzi”  la notte del 14 è stata proprio disastrosa.

Li abbiamo colti nel sonno grazie ad una donna che ci ha portato proprio nel cascinale dove riposavano. Abbiamo atteso perfino le luci dell’alba per attaccare; nessuno doveva sfuggirci. La guida, una robusta contadina, aveva il dente avvelenato perché i titini le avevano scannato il fratello, reo di non volersi aggregare. Un rapidissimo scambio di colpi, alcune ben piazzate bombe a mano e tre prigionieri “felici” – a sentirli! – “di poter andare a lavorare in Germania”. Ad un certo punto della mischia, mentre correvamo in avanti per tagliar loro la strada, Niny si è trovato davanti un “politruk” che lo inquadrava nel mirino del suo Maser.

Scansandolo come un gatto, ha afferrato la canna del fucile e gliel’ha calato sul cranio che si è aperto come una palla di gomma, e sangue e cervello son finiti sul lastricato del mulino. Una scena del tutto uguale a quella cui mi toccò assistere a Mune, nel novembre del 1943. Sconvolgente, ma non c’era tempo da perdere. Raggiunsi, nel bel mezzo della sparatoria, un grosso tronco e mi ci piazzai dietro. Rialzandomi appoggiando la mano, mi avvidi che penetrava nel legno completamente fradicio. “Dio aiuta gli scemi due volte nella vita” ed io avevo da quel dì superato la ….. concessione! Scivolai un paio di volte e alla fine fui colto da una scheggia di bomba a mano alla spalla destra. La cosa comica fu che la granata era stata lanciata da un milite !

Accidenti a lui !!

A battaglia terminata ci siamo precipitati nell’abituro tenuto dai titini. Dentro c’erano un paio di ceste colme di mele, un fusto di nafta, pochi stracci e tre o quattro moschetti rugginosi. Anche loro se la spassano !

A Prelose abbiamo fatto fuori un suino e non narrerò in che modo. Bestiale. Lo  abbiamo “cameratescamente” diviso tra noi, e Relly ne chiese il fegato per “donarlo”. Al Capitano Cavalli (in congedo e in miseria).

Per la “Pipa in boca” fu fatale. Lo mangiò per intero e durante la notte morì tra atroci sofferenze. Tra le interessanti cose accadutemi a Tatre, ricordo “piacevolmente” le maledizioni e gli improperi elargitimi da un ferito (milite), che ebbi la dabbenaggine di caricarmi sul groppone per trascinarlo ai camion.

Poveraccio ! Aveva una pallottola nel calcagno sinistro.

GIORDANI – 17 marzo 1945 – Continuando nei rastrellamenti a Tominic ho preso un’altra bandiera jugoslava. L’ho attaccata al muro del corridoio e Stjepan ci sforma, soffre le pene dell’inferno. Chissà come – grosso e alto com’è – mi pesterebbe sotto i piedi “ E’ colpa mia se i “druzi” le seminano in giro ?

Oggi è venuto l’ordine di presentarmi a Rupa per ascoltare il rapporto del Comandante di settore di sicurezza, Colonnello SS Allers. Si è complimentato con noi, cioè con quelli che hanno ripulito la tratta dalla presenza partigiana; ha cianciato di comuni ideali e promesso che presto entreranno in funzione le nuove armi. Campa cavallo !

La sua arringa si conclude con l’offerta generosa d’una capace damigiana di vino friulano. Meno male che lui si complimenta e ci regala qualcosa; il nostro Rigetti Montesi, conte di Vergato, a differenza di Porcù, non ci da nulla e non è mai venuto a trovarci. Una vera merda.

GIORDANI – 18 marzo 1945 – Brunello, uscito con una pattuglia per la normale ispezione, è stato fatto segno ad un attacco proditorio e colpito da una raffica di mitra. Per fortuna, le pallottole, non blindate, sono state deviate dalla fibbia del cinturone e solo una gli si è conficcata nell’avambraccio sinistro.

Appena saputolo, mi sono precipitato a Mattuglie, recandomi con un paio di uomini e con il giovane Tetamo (che era presente all’imboscata) nella zona dell’agguato, nella frazione di Breghi. Una contadina aveva assistito alla scena perché quei partigiani provenivano proprio da casa sua. Vi si erano recati, come ogni mese, per “ritirare parte della razione alimentare assegnata con la tessera”. Sembra assodato che i malfattori depredano la povera gente anche dei pochi generi tesserati “in nome della causa”.

GIORDANI – 21 marzo 1945 – Zelko, con tutti gli altri militi, torna a Fiume. Io, con un nerbo di reclute arrivate ieri sera, devo unirmi al presidio di Rupa di Elsane. Per raggiungere il caposaldo, anziché la Statale 14, vado lungo la strada ferrata. Il drappello – Tricolore in testa – tocca così Pusi, Permani, Vele Lasi e Sappiane.

Una dimostrazione (unita a tanta rabbia) provocatoria per chi pensa d’averci completamente estromessi dalla provincia del Carnaro.

Dirò col Poeta: “HIC MANEBIMUS OPTIME”.  (Gabriele D'Annunzio per Fiume)

RUPA DI ELSANE – 25 marzo 1945 – Da questo tormentato quadrivio è più facile avere l’esatta cognizione dell’esodo dei fiumani, quelli cioè che si spostano con camion a gasogeno stracolmi di masserizie. Ne passano in continuazione, alcuni perfino a piedi, carichi di fagotti e tutti – nessuno escluso – fanno risalire la colpa del dramma “a Mussolini e alla sua cricca”, e, indirettamente, a noi militi che gli teniamo bordone. Come si fa a dar loro torto.

RUPA DI ELSANE – 29 marzo 1945 – Giovedì santo. Col collega Pizzarotti, vice comandante di Mune Vele, siamo andati a vedere, per la prima volta, Lipa e le sue rovine. Una scena indescrivibile. Tra le macerie delle case affiorano ossa umane, indumenti bruciati, terraglie; perfino apparecchi ortopedici.

L’intero borgo, benché attraversato dalla strada che porta fino a Clana, è interdetto a chiunque, sin da quel terribile aprile. Sconvolti, andiamo a Rupa–paese, e una donna, chissà per quale diavolo, ci sussurra all’orecchio: “hanno fatto bene a levarseli di torno. Quelli erano tutti cattivi”. Opinione da voltastomaco, che noi due non abbiamo affatto sollecitata.

RUPA DI ELSANE – 30 marzo 1945 – Grande novità oggi: il contingente della Wermacht, che occupava la Casa del Balilla, lascia Fiume: destinazione sconosciuta. Forse si stabilirà a Mattuglie o a Castelnuovo. Nell’andarsene, libera alcuni detenuti comuni trattenuti per accertamenti, ma non i politici, la cui sorte rimane ignota.

Dal posto di blocco oggi è transitata, su una vera “troika” una famigliola di russi. Altri infelici trascinati dalla guerra sino a noi. Un vecchio, che teneva per la cavezza il cavallo, ci ha mostrato un crocefisso appeso al collo; il suo lasciapassare !

Sul carro tre visi smunti, compreso quello di una donna incredibilmente invecchiata.

 In serata ho rivisto Vittorio Pappalardo a cavalcioni di una moto. Indossava l’uniforme della XMAS ed era diretto a Laurana. Fa servizio in una compagnia formata quasi esclusivamente di giuliani. Io ho sempre saputo che non desiderava affatto militare nella GNR, ma mi domando perché mai è tornato nel Carnaro. Altro che 3° MDT !

Piuttosto la difesa contraerea che servire i tedeschi. Bando ai ripensamenti.

Ieri, due militi – si chiamavano Tek e Ferretti, un fiumano e un toscano – ubriachi sono stati abbattuti come cani dai “belogardisti” sloveni a Elsane, zona a noi proibita in quanto “enclave” della Nuova Repubblica di Slovenia. Erano due fannulloni, sempre in giro per arraffare, perennemente preda del vino. Lo stesso Relly, che li aveva ai suoi ordini, non pensa di chiederne ragione, perché: “se non lo facevano le guardie bianche, l’avrei fatto io”.

Tuttavia qualche giorno dopo, non ricordo quando, ci scontrammo con loro e li mettemmo in fuga

RUPA DI ELSANE – 1° aprile 1945 – un bel pesce sarebbe quello di tagliare tutti la corda e lasciare “Fritz” con un palmo di naso. Se i militi se la filassero alla chetichella, forse “dopo” potrei filarmela anch’io. Ma temo che non avrò mai il coraggio di disertare. Ci ho provato invano, ma, da quando il Comandante Porcù è stato giubilato, le diserzioni sono aumentate. Restano quelli sentimentalmente legati alla causa, i fresconi, coloro che si riconoscono nel motto: “IL MIO ONORE SI CHIAMA FEDELTA’ ”, parole vuote….. Cioè, sono i Brunello – ancora convinti che qualcosa accadrà per cambiare la situazione.

( Oggi Gianpaolo Pansa, giornalista di chiara fama, sostiene che la G.N.R. “… era ricca di individui di pochi scrupoli, poco meno che soldatesche mercenarie dei tempi bui….” .

Evidentemente è in malafede o, come qualcuno dice, riscuote il “valsente” da Via Botteghe Oscure e quindi…..)

Santa Pasqua in assoluta indifferenza.

RUPA DI ELSANE – 4 aprile 1945 – Con la fattiva collaborazione della “Royal Air Force”, abbiamo avuto a mensa, finalmente, carne fresca. Splendide bistecche di cavallo ungherese ucciso da un aereo inglese. E mentre il birocciaio se la dava a gambe, noi abbiamo preso la bella bestia, l’abbiamo scuoiata, ripulita dalle frattaglie e fatta a pezzi. E ne abbiamo data agli altri capisaldi della Statale 14. Festa !

Un “gulasch” coi controfiocchi, come sa prepararlo Tonce il vegliotto. Quarti perfetti che, però, non sapremmo dove mettere. “Peccato” ! E’ stata la nostra tacita rivincita sull’orribile misfatto compiuto da Franz, tedesco e interprete, imbecille al cubo. Andò così. Dopo lunghe attese, avevamo ricevuto un barattolone di pelati e cinque chili di “subiotti”, ma, al momento di preparare il desiato piatto di pasta asciutta, c’è toccato uscire su allarme e Franz – che ha vissuto per anni a Verona – ci ha assolutamente promesso che ci avrebbe pensato lui. Il magna-crauti ha messo insieme “subiotti”, pomodoro, sale, acqua, margarina e cipolla, il tutto a lessare insieme e alla fine, per rendere il piatto più appetitoso, ci ha buttato dentro una manciata di zucchero. Maledetto !

RUPA DI ELSANE – 5 aprile 1945 – Il nostro “vecchio” deve recarsi a Brescia, al Comando generale delle GNR per un servizio ed io, forse, lo seguirò. Così rivedrò mia madre, sempre in pena per noi, e gli consegnerò un bel gruzzolo messo insieme in tutti questi mesi, compreso i soldi ricavati dalla vendita delle sigarette sotto la Torre Civica.

A Milano la vita è carissima (per cinque persone….) e lo stipendio di Filippo è una vera miseria. Franca, mia sorella, si arrangia con le gonne dipinte, ma non capita spesso e il babbo, anche lui, non sguazza nell’oro e qui deve mantenere una certa dignità, pagare l’affitto, ecc…… Ed io fo quello che posso. Su Niny è meglio non contare. Il folle gioca a poker e perde regolarmente. Sapere il “vecchio” lontano da Fiume mi rasserena. Era diverso se ci fosse stato con lui mio fratello, ma ora che si trova a Muna, papà è proprio solo. A proposito di Niny, sapendo che mi trovo a Rupa, mi viene a trovare scavalcando il Monte Orliacco che divide la pianura di Sapiane dalla Ciceria. Lui evita le strade, perchè – ed ha ragione – è li che i “druzi” attendono le proprie vittime.

RUPA DI ELSANE – 6 aprile 1945 – La ritirata tedesca dai Balcani si fa ogni giorno più manifesta. Truppe provenienti dalla Croazia transitano per il nostro caposaldo e non solamente tedesche, ma “ustasci” in divisa azzurra, “cetnici”“nediciani”, perfino “mussulmani” col fez rosso e, quello che meraviglia tutti, è che non provano affatto ad azzannarsi. Spariti odi tribali, religiosi, politici. Fuggono e basta. Somiglia all’incendio della savana, quando il leone ignora la gazzella cercando solo di sfuggire alle fiamme.

“cetnici” offrono ai nostri occhi uno spettacolo unico con quel loro assetto tribale, le chiome lunghe e sporche, il seguito zingaresco di donne laide, di mocciosi, a piedi o su carri di fortuna trainati da cavalli sfiniti.

Vederli e collegarli all’invasione mongola del XV secolo è un accostamento che s’impone perché doveva essere del tutto simile. Saprà mai “Petar drug”(Pietro II Karageorgevic) quanto pagheranno in morti e umiliazioni questi suoi fanatici fedeli ?

E a Fiume – com’era facilmente prevedibile – si incontrano in Corso e nelle piazze spocchiosi ufficiali di Pavelic nell’inconfondibile divisa tanto uguale a quella che indossarono nell’altra guerra gli austro–ungarici.

La solenne dichiarazione del Colonnello Volker: “Le leggi italiane in atto nelle singole province giuliane non vengono modificate” è andata a farsi benedire. …..”Panta rei”…. Tutto scorre, e così – se è vero quanto si mormora in giro – per ricordarci chi è il vero padrone i nazisti avrebbero “impiantato” a Trieste un campo di sterminio con tanto di forno crematorio, come ad Auschwitz.

Propaganda che attecchiva  facilmente perché i tedeschi non si facevano amare.

( Tuttavia questa faccenda del forno crematorio alla pilatura del riso è ancora da chiarire. Di comprovato c’è solo la detenzione a S. Sabba di circa 200 ebrei, che però – stando al rapporto Rückert, datato 1977 – furono tutti posti in libertà dal col. Allers…..La fantomatica notizia “migliaia di persone cremate a S.Sabba” non trova nessuna conferma……

Suscita perplessità saper che le autorità militari  jugoslave – in ben 45 giorni  di occupazione del capoluogo giuliano – non ne abbiano mai fatto cenno. Perché?

Non ne parla nemmeno Bruno Piazza, israelita scampato alla camera a gas di Birkenau, che prima era stato concentrato proprio nella risiera di S. Sabba….).

FIUME – 7 aprile 1945 – La città è in coma e i suoi abitanti si preparano a lasciarla in massa. Le privazioni, il marasma, la paura del giorno dopo, la fanno da padrone. E non basta. Chi, poi, antifascista (soprattutto gli autonomisti), non condivide le pretese slave, è parimenti nel mirino dei titini….. “DE PROFUNDIS CLAMAVI !…. Ed io sono in costante apprensione per il mio  “vecchio” . Se almeno lui potesse mettersi in salvo; ma, conoscendolo, so che non si macchierebbe mai di un reato come la diserzione.

RUPA DI ELSANE – 8 aprile 1945 – Niny, seguito dal milite Fazio, fa la solita capatina in caposaldo, solo che vi giunge in un momento drammatico, cioè durante l’attacco di sei cacciabombardieri. Mitragliano e spezzonano, calano uno dietro l’altro e prendono d’infilata qualsiasi cosa si muova, e per dimostrarci che possono fare di noi strame, scendono fino a 50 metri di quota, quasi raso terra. E allora, il folle fratello, furibondo, imbraccia un mitragliatore, monta sulla cupola del “bunker” e spara contro gli inglesi, infischiandosene d’essere preso come bersaglio. Ed io, tapino, che lo strattono dall’interno della casamatta per farlo smettere.

FIUME – 10 aprile 1945 – Niente licenza per me, ma ho trovato un valido motivo per scendere in città. Vado a salutare il babbo in partenza per Brescia.

In Piazza Oberdan e lungo la Fiumara ho visto un folto gruppo di “lavoratori” che attendono, rassegnati, la distribuzione degli strumenti di lavoro da parte di un capoccia della Todt. A ridosso del parapetto dell’Eneo s’ammucchiano stancamente un centinaio di armati nostri, tedeschi, “ustasci”, e, perfino,“cetnici”. Fino a pochi giorni orsono era impensabile ed ora, uniti, si preparano a respingere un attacco d’Oltre Ponte. Tra loro vedo l’inconfondibile fez nero del collega Ferrara, e lui mi scorge e mi saluta con un ampio cenno della mano destra. Nella sinistra stringe un “panzerfaust”. Mi vien voglia di abbracciarlo, ma in quella, un aereo picchia improvvisamente sugli uomini, lavoratori e soldati e sgrana una lunga raffica. Fuggi fuggi e affannosa ricerca di un riparo. Capita sempre più spesso da quando gli inglesi hanno rimesso in attività il campo d’aviazione di Grobnico.

L’allarme non serve più. dall’alto della S.Entrata – la sola via ormai percorribile per andare a Trieste – osservo angosciato le rovine della zona industriale, mura annerite dagli incendi. Delle fabbriche fiumane, orgoglio secolare di una città eminentemente industriale, non rimane più nulla. Io me ne allontano definitivamente, ma quale destino attende i miei commilitoni ?

Il conte monocoluto, a quanto pare, si prepara – con la sua druda – a raggiungere Castelnuovo d’Istria, lasciando nella peste i miei compagni d’arme. Com’è stato fortunato il mio “vecchio” ad allontanarsi in tempo !

RUPA DI ELSANE – 12 aprile 1945 – E’ morto Roosewelt, il Presidente degli Stati Uniti. Per noi perdenti non cambia e non cambierà nulla (ma gli americani sconteranno amaramente la sua presidenza e la sviscerata ammirazione che nutriva per Stalin).

Oggi ho avuto la notizia che il Maresciallo Onzati è stato pugnalato nel rifugio del Palazzo del Governo sotto gli occhi della moglie. E pensare che dalla fine di gennaio era un semplice borghese, dalla salute malandata. Un uomo generoso, leale, disponibile sempre. Quanti altri dovrò vederne ancora piangere ?

I tedeschi, riferisce il solerte Maggiore Capellini, “per improrogabili esigenze militari, hanno inquadrato tutti i soldati della RSI nelle loro unità combattenti”.

Col piffero che mi farò “inquadrare”.

RUPA DI ELSANE – 13 aprile 1945 – La ritirata tedesca è un vero fiume di uomini e mezzi. Clana è stata occupata dai titini e questo significa che sono a meno di 10 km dal quadrivio. Reparti di “ustasci”, visi torvi e stravolti, avanzano a fatica diretti a Trieste, tirandosi appresso molti barroccini carichi di cassette e zaini.

Altro che ordinato ripiegamento; questo è un vero esodo biblico ! Ed io scrivo quasi giornalmente il mio diario, un vero giornale di bordo…. Chi mai lo leggerà se dovessi soccombere ?

RUPA DI ELSANE – 14 aprile 1945 – Alle ore 10.00, aerei inglesi spezzonano Abbazia colpendo in pieno l’Hotel Belvedere adibito ad ospedale militare. Tra i morti il Sottotenente degli alpini Gaspare Badalucco, atleta fiumano con il quale avevo frequentato nel 1942 la palestra del gruppo rionale “Stojan” a Fiume. Tra i ricoverati c’era anche Brunello, non ancora rimessosi dalla ferita al braccio. Per lui non c’è altra alternativa se non rientrare a Mattuglie subito.

RUPA DI ELSANE – 16 aprile 1945 – “Provvedere alla distruzione anche dell’acquedotto militare non appena sarà dato l’ordine di evacuare il presidio”. Quando ?

Radio Adria comunica che: “A San Pietro di Gorizia un gruppo di banditi serbi ha proditoriamente assassinato 17 legionari della GNR e tre ufficiali.” Uno era lo spalatino Doimo Draghicevic, gli altri due Orlando De Lena e Aldo Valdambrini, tutti e tre giovanissimi. Gli assassini erano irregolari cetnici comandati da un tedesco.

RUPA DI ELSANE – 19 aprile 1945 – L’E.I.A.R. (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) non trasmette più i notiziari, ma soltanto musica da camera. Tace anche l’ADRIA, la radio triestina gestita dalla propaganda tedesca.

In cima ad uno sbilenco autocarro, appollaiato sopra una montagna di masserizie, si ferma al posto di blocco il Maggiore Capellini; ne nasce un breve scambio di battute: “Fuga o ripiegamento Signor Maggiore !”. E lui, inviperito: “Ma cosa dice ? Sa bene che Fiume è indifendibile; costituiremo una linea difensiva a Castelnuovo…. A presto rivederci, caro tenente….” .

Non dimenticherò il suo melenso, falso sorriso. I profughi mi dicono che la città è stata bombardata anche stamani.

RUPA DI ELSANE – 20 aprile 1945 – Ho compiuto ventuno anni: festeggerò mai – povero illuso ! – i ventidue ? Da un fuggitivo che arranca faticosamente su una bicicletta, ho saputo che i boia nazisti hanno arrestato – e fucilato il 18 – “l’esponente militare del C.L.N. di Fiume”, del quale ignora il nome.

RUPA DI ELSANE – 21 aprile 1945 – Il cannone fa udire il suo sordo brontolio sia da sud che da est. I nostri “alleati” pare che abbandoneranno Fiume onde evitare alla popolazione già tanto provata, disagi e sacrifici inutili.

A Sussak entrano i titini e dall’alto del colle di Tersatto dominano completamente la città. Porto Baros è stato distrutto dai genieri tedeschi che si apprestano a fare altrettanto con le attrezzature portuali di Fiume. Indicativo, però, è lo sganciamento della Wermacht dalle posizioni tenute lungo la Fiumara. Spero che si eviti a quella povera gente lo scontro casa per casa, come pretende il “Berater”.

FIUME – 22 aprile 1945 – Nella notte tra il 21 e il 22 i tedeschi sono ritornati, rioccupando caserme, postazioni fisse ed edifici pubblici precedentemente evacuati. Dinanzi al Duomo di San Vito hanno fucilato una decina di “sciacalli” sorpresi a razziare nelle case abbandonate. Erano soltanto degli affamati, disperati. I nostri militi sono stati impegnati in aspri scontri sia lungo la Fiumara che al ponte ferroviario di via dell’Acquedotto.

Il collega Sottotenente Nicola Ferrara è caduto eroicamente, mentre – appostato in un tombino in Piazza Scarpa – tentava di arrestare l’avanzata di un carro armato titino.  Nicola, la sua barbetta a punta, il suo idioma romanesco, il suo sorriso ……”TI IMPONGO IL LAURO D’ENCICLOPEDICO….!”. Povero amico mio !

RUPA DI ELSANE – 24 aprile 1945 – Gli “uccellacci” non ci danno tregua. Alle 11.00 una squadriglia formata da “Spitfire” e Macchi ci piomba addosso mitragliando e spezzonando per oltre mezz’ora sia il quadrivio che il paese, in quanto – avvisati dagli spioni – vogliosi di far fuori quattro semoventi M.15 del Gruppo Carri San Giusto, presentatisi in mattinata e diretti al Pian della Secchia (Villa del Nevoso).

Le bombe fanno a pezzi le mucche che un bovaro menava al pascolo nelle doline sotto Sappiane. Intanto il tambureggiare delle bocche da fuoco continua senza interruzione e ci si chiede se si tratta d’artiglieria tedesca o slava. A Fiume, una pattuglia della “Feldgendarmerie” spara e uccide due civili, colpevoli di non essersi fermati all’alt ! Nel pomeriggio i tedeschi fanno saltare in aria il Monumento ai Caduti posto sul molo San Marco, che col suo Leone alato ricordava al mondo l’unione a Venezia e all’Italia.

La situazione si è notevolmente aggravata per la mancanza, oltre che di viveri e medicinali, di acqua e corrente elettrica. C’è pericolo di tifo per inquinamento delle falde acquifere e, come se non bastasse, un altro ordine balordo del “Berater” :

TUTTI GLI UOMINI, DALLA CLASSE 1885 SINO AL 1930, ABITANTI NELLE SUDDETTE VIE E PIAZZE: PARINI, VITTORIO EMANUELE, PETRARCA, CARDUCCI, CALLE CA’ D’ORO, SAN VITO E DELLE ERBE E SALITA DEL CALVARIO, DEVONO PRESENTARSI ALLA CASERMA <DIAZ> PER ESSERE AVVIATI AL LAVORO OBBLIGATORIO”.

RUPA DI ELSANE – 25 aprile 1945 – Nonostante il silenzio radio, non si sa come, si è sparsa nel pomeriggio la voce che a Milano il popolo sarebbe insorto contro tedeschi e fascisti.

Di sicuro si sa che si combatte aspramente sul Po, a Piacenza e che il Maresciallo Graziani, personalmente, è a capo delle truppe della RSI, le uniche ad affrontare gli americani. Fra le 16.00 e le 16.30, l’aviazione alleata tempesta di bombe le postazioni tedesche e nostre a Drenova. Questo presuppone un attacco generale dei titini per impadronirsi di Fiume.

RUPA DI ELSANE – 26 aprile 1945 – All’alba giunge al quadrivio un reggimento di Cacciatori da montagna tedeschi, il 139°, composto da reclute giovanissime e da ufficiali attempati. Il reparto – privo di armamento pesante – riparte dopo una breve sosta per Iscra, probabilmente per arrestare l’avanzata slava.

Lo spettacolo che si presenta ai nostri è tale da farci cascare le braccia: nessun “gemeiner” (soldato) conta più di 16 anni !

Possiamo “de visu” constatare in cosa consistevano le “nuove armi” di Hitler ! A questi adolescenti il pazzo affida il compito di bloccare l’avanzata di truppe addestrate in ben cinque anni di guerriglia, adusi a qualsiasi fatica, vere macchine belliche. In serata, dai diversi capisaldi posti sulla Statale 14 (molti anche da Fiume) si presentano un centinaio di militi del 3° MDT; non sapremmo davvero come alloggiarli e nutrirli, ma il problema non si pone: la maggioranza – nel timore di fare la morte del topo sotto le bombe aeree – preferisce dormire all’addiaccio completamente vestita. Del resto, da ieri l’altro neanche io mi tolgo uniforme e stivali; sarebbe assai ridicolo crepare in mutande !

A sera, pilotando un’auto biposto, il Capitano carrista che comandava il Gruppo San Giusto mi avverte che il reparto è stato sgominato e che i titini, avendo sfondato a Fontana del Conte, marciano su Elsane. E cosa dovremmo fare ?

Nessuno ci ha ordinato di sgomberare, niente ordini di ripiegamento come ci aveva preannunciato il Maggiore Cupellini, la mano sul cuore !

RUPA DI ELSANE – 27 aprile 1945, mattina – Su una grossa moto, un’apparizione inattesa: il Maggiore, relatore dei Conti, Carletti (semplice omonimia con Brunello). Arrestatosi allo stop intimato dal milite Maritan, di servizio alla sbarra, alza la voce chiedendo dell’ufficiale comandante.

Mi premuro di metterlo a parte degli ultimi avvenimenti facendogli presente che Fiume è circondata e i tedeschi combattono a Mattuglie. Ignora perfino che il nostro Comandante si è spostato a Castelnuovo d’Istria. Ha con sé una borsa contenente, come mi confida, undici milioni in biglietti di banca, vale a dire gli stipendi degli ufficiali e il soldo dei militi più sei mensilità d’emergenza, come stabilito dallo stesso Duce.

A questo punto, sfacciatissimo, lo invito a pagare quelli che ora si trovano in caposaldo, complessivamente quasi duecento uomini e lui, sbottando: Ma cosa diavolo dice “ Io sono responsabile e devo avere i regolamentari registri di carico debitamente firmati. Vi pagherò a Castelnuovo…..”.

Temo fortemente che non vedrò una sola lira del mio, così come tutti gli altri, e il milite Maritan, all’orecchio, mi suggerisce diabolicamente: “El coronel se pappa i sghei e chi s’è visto s’è visto …. Mi ghe dago una pappina per la chiorba e non se parla più”.

Brutto mascalzone, aggredire un ufficiale superiore ! Ma io ti faccio fucilare ! -

(Comunque, aveva ragione lui. “El coronel” si tenne i milioni, si rifece una verginità politica sedendo nei banchi della democrazia cristiana triestina e nessuno ebbe il coraggio di trascinarlo in giudizio).

Continuano ad affluire sbandati dagli altri capisaldi e sul finire della giornata riabbraccio alcuni miei militi di Mattuglie e lo stesso Brunello. Lui è riuscito a passare seguendo la strada ferrata perché ormai si combatte sulla linea Clana – Gumanac – Mattuglie e la Statale 14 è intransitabile. Impossibile che ne giungano altri per quell’arteria.

Carletti ha sempre il braccio sinistro al collo e, per soprappiù, una guancia – la destra – gonfia orribilmente per la puntura d’una vespa. L’occhio è completamente chiuso. Non è proprio piacevole a guardarsi.

Intanto comincia a piovigginare.

RUPA DI ELSANE – 28 aprile 1945 – Nessuna novità nella notte e Relly è irremovibile. Non intende assumere responsabilità personali, anche se riconosce che non è con tre mitragliatrici e quattro “81” che fermeremo un’armata.

Il flusso dei militari in ritirata, e le loro miserande condizioni, la prova evidente dell’immane disfatta. Invalidi, feriti, gente stremata e incapace di proseguire. La maggior parte disarmata, gli sguardi allucinati.

Ore 10.00, Niny arriva trafelato e urla che c’è l’ordine di ripiegare. E alla domanda di Piesz: “Dov’è il dispaccio”, risponde inferocito che la staffetta motociclista ha preferito “voltare il culo e squagliarsela”, dopo averlo comunicato a lui a Mune. Pizzarotti, il suo vice, è dall’alba in marcia verso Trieste seguendo la strada istriana di Piedimonte del Tajano.

“Intendi mettere in dubbio ciò che ti dico ?”.

Relly non ci pensa nemmeno e dà immediatamente ordine di trovare dei carri e dei manzi per caricare il materiale. I militi, come colti da una tarantola, corrono da una parte e dell’altra per ammucchiare armi, munizioni, viveri, casermaggio. Si parte, si parte finalmente ! Ma Milan, capovilla di Rupa non ha le bestie da aggiogare ai carri perché: “Sono andati in pastura, dalle parti di Graccina Nova ed oltre…”, cioè ad est, dai titini. Che fare ?

Con il milite Pascutto vado verso le doline sotto una pioggia sferzante e, guarda un po’, accosciato – l’ombrello aperto – un bovaro è a guardia d’una ventina di mucche da latte. Andranno bene anche quelle, benché sprovviste di ferri agli zoccoli. Il sospirato ordine mette a tutti le ali ai piedi e in un paio d’ore siamo pronti per ripiegare anche se piove a scrosci. Ma è una vera manna perché l’aviazione nemica non può intralciare la nostra ritirata.

Relly sollecita tutti a sbrigarsi, impartisce l’ordine al Sergente Maggiore Scali di far brillare la dinamite collocata nei fornetti dell’acquedotto. Si raccomanda di distruggere anche il materiale intrasportabile, pezzi di ricambio per le armi compresi, corrispondenza, documenti e fotografie per non compromettere le famiglie rimaste a Fiume. Abbiamo una decina di carri già approntati e non resta che mettersi in marcia tra quegli altri disperati in fuga.

(La nostra, cosa fu se non una fuga ? Ma ci si deve dare atto che il 28 aprile 1945 era difficile trovare un reparto ancora in armi nella RSI. Noi scappavamo, ma che accadde dei tedeschi visti la mattina del 26 ? )

“Il 2 marzo 1945, con elementi raccogliticci dalmati e liciani venne costituita la IV^ Armata jugoslava. Le forze tedesche ( 97° Corpo d’Armata) schierate lungo la linea <Ingrid>, corrispondente grosso modo al vecchio confine italiano con la Jugoslavia, fronteggiarono con grande coraggio la situazione, considerato che ormai (essendo praticamente circondati dopo lo sbarco effettuato a Moschiena dagli slavi il 25 aprile e l’avanzata del VII Corpus proveniente da Lubiana) ogni resistenza sarebbe stata vana. L’attacco ebbe inizio il 17 aprile e si protrasse fino ad oltre il 10 maggio, grazie, appunto, alla tenace resistenza germanica dovuta all’esigenza di coprire lo sganciamento del grosso delle truppe naziste verso l’Austria e la Germania; e, forse, con l’intenzione di assecondare i piani alleati di occupare l’intera Venezia Giulia. Le truppe jugoslave non riuscirono a rompere la difesa tedesca con attacchi frontali alla città di Fiume e, infatti, il Generale Kubler (poi fucilato nel 1947) fu catturato a Mattuglie col suo Stato Maggiore e tre reggimenti di Cacciatori di montagna. Gli slavi allora operarono una manovra aggirante sulla dorsale Villa del Nevoso – San Pietro del Carso” (C.Manganaro: “Trieste, fra cronaca e storia”)”.

(I militari tedeschi caduti in mano titina subirono fucilazioni a man salva o un’amara prigionia. Si ebbero molti casi di suicidio specialmente tra gli ufficiali. In quanto ai nostri militi del 3° MDT, dopo un’eroica quanto inutile resistenza strada per strada, vennero sopraffatti e i prigionieri, quelli che avevano tenacemente contrastato le bande di Tito, furono subito accoppati compresi gli ultimi arruolati, le reclute del 1924 e 1925. per gli immemori è necessario aggiungere (e Gianpaolo Pansa ne prenda nota) che contrariamente a quanto da molti affermato, la chiamata alle armi delle suddette classi superò a Fiume ogni più ottimistica previsione. Delle 800 reclute presentatesi al Consiglio di leva dal 7 all’11 marzo 1944, ben 467 chiesero l’arruolamento nelle FF.AA. della RSI e non solo nessuna recluta chiese l’arruolamento nell’esercito croato di Pavelic, ma a Sussak si ebbe più di un’adesione al “nostro” esercito. La M.D.T. avrà nel Litorale Adriatico, dall’8 settembre 1943 al 28 aprile 1945, 270 morti e 305 feriti. Il P.F.R. e le altre formazioni della RSI perderanno quasi 4.500 uomini e si ignora il numero dei dispersi. Si può affermare che essi assommano ad una cifra pari a quella dei caduti. A Fiume, oltre alla M.D.T. operarono tre batterie della Marina, tre batterie contraeree e un gruppo di alpini. Nel 1944, con elementi locali, studenti ed operai, la XMAS costituì a Laurana la Compagnia “D’Annunzio”. Nella provincia del Carnaro, i combattenti della RSI non fanno storia e non esistono riscontri validi sul loro definitivo numero, perché molti sparirono senza lasciare tracce. I parenti – per motivi allora comprensibili – non ne denunziarono la scomparsa. Gran parte di quegli sfortunati combattenti provenivano dalle regioni meridionali; erano militari sbandatisi dopo l’armistizio badogliano, arruolati – vuoi per amore, vuoi per necessità – nei reparti della RSI. Le famiglie, a tutt’oggi, ritengono che i loro cari siano stati soppressi nei Balcani e non in Venezia Giulia, perché – con l’Italia divisa in due tronconi per oltre 18 mesi – essi ricevettero le ultime notizie dalla Croazia, o dalla Jugoslavia in genere, “prima” dell’8 settembre 1943).

Sin qui la mia agenda. Da questo momento subentrerà la memoria.

 

 

 

 

SECONDA PARTE

“Senofonte immaginò che accadesse

un fatto d’insolita importanza.

D’un balzo è a cavallo, parte al

galoppo per recare aiuto. Ma quasi

subito s’odono i soldati gridare

distintamente: “Il mare, il mare !!”

La parola passa di bocca in bocca.

Allora tutti si misero a correre,

anche gli ultimi ……

Quando tutti i soldati furono sulla

vetta, cominciarono ad abbracciarsi

a vicenda; abbracciavano anche i

generali, i capitani, con le lacrime

agli occhi …….”

 

(XENOPHON – ANABASI – Libro IV)

 

28 aprile 1945 – ore 18.00 – Abbiamo atteso invano di congiungerci con altri commilitoni e ora – distrutto il “surplus” Piesz impartisce l’ordine di marcia. Piove a dirotto ma è un bene perché impedisce agli “uccellacci” che ci cercano per farci fuori di scorgerci. Ieri, per dirne una, in seguito ad una schiarita, hanno disperso una brigata cetnica in ripiegamento tra Clana e Isera. Stasera la foschia è tanto densa che a malapena si scorgono i monti della Ciceria.

Un paio di militi sullo spiazzo finisce di bruciare gli incarti rovistando con un bastone le ceneri.

Probabilmente, se non fosse giunto l’ordine di evacuare, oggi avremmo contato decine di disertori. Manca all’appello il Sergente Maggiore Scali, al quale Relly aveva dato l’ordine di distruggere l’acquedotto militare; mi auguro che non sia stato preso dai titini.

Nonostante la pioggia sferzante si procede speditamente e nel più grande silenzio, forse – è una mia impressione – perché gli uomini capiscono che il dramma non si può dire concluso. Anche quel dare alle fiamme i ricordi più cari, quell’isolarsi, è causa di malinconici pensieri. La grande bandiera, che garriva da 16 mesi sul pennone del presidio, da inguaribili sentimentali è stata tagliata a striscioline e ciascuno ne ha preso una.

E mentre i militi di Fiume marciano a testa bassa, io non ho ripensamenti per questa terra, perché “sento” che presto rivedrò la “mia” e, tuttavia non posso dimenticare i tanti compagni caduti nell’ultima difesa e mi chiedo se il nemico, cavallerescamente, rispetterà almeno le loro tombe (non lo fece; furono sconvolte dall’aratro e le ossa        disperse).

Ore 20.00 – Siamo a Castelnuovo ma non c’è traccia del Colonnello Montesi Righetti, né del suo Stato Maggiore.

“Oh, Gigi Capellini, perché mi hai mentito ?”

Si rinnova la liturgia sul modello dell’8 settembre 1943, con i capi in ignominiosa fuga e i gregari abbandonati ! Mascalzoni……

Davanti la sede del Comando delle SS, accosciato, un anziano “gefreiter” ci saluta mestamente abbrancato ad una mitragliatrice “Spandau” e all’invito di Relly a seguirci, scuote la testa mormorando: “Nein, befehl ist ein befehl…”  (No, un ordine è un ordine…).

E a proposito di “ordini”, soltanto alle porte di Trieste apprendiamo che quello di “ripiegare” è partito dalla fantasia di Niny, sicurissimo che nessuno ce lo avrebbe mai dato. Prova ne sia che a Castelnuovo non c’era l’ombra dei nostri capi.

Andare, quindi, avanti e raggiungere Trieste prima che l’armata jugoslava – che ci tallona – possa superarci con i mezzi blindati. Se riusciremo a farcela saremo dei “sopravvissuti”, così come lo sono gli sbandati che in lunga teoria seguono il nostro reparto. Sebbene la caotica ritirata si stia diluendo, è penoso conoscere che qualcuno sta molto peggio di noi, mille volte.

Infermi. Feriti persino mutilati abbandonati a se stessi, sommariamente bendati con la carta igienica, arrancano appoggiandosi ai colleghi o su rudimentali stampelle. Altri si ingegnano su carrettini, tricicli, biciclette e tutti recano sui volti i segni della disfatta e della infinita stanchezza, ma nessuno intende rimanere indietro e la marcia, se si può dire, è regolata dal lento passo delle mucche non avvezze alla strada asfaltata.

Ore 22.00 – L’acquazzone si accheta e scorgiamo l’appuntito campanile di Obrovo, ma notiamo anche sventolarvi in cima un drappo; lo conosco bene: è la bandiera jugoslava.

All’ingresso dell’abitato uno sbarramento fatto di mobili, materassi, mattoni, impedimenti di vario tipo. Ci aspettavano e non possiamo arrestarci in attesa dell’alba per avere un quadro migliore della situazione.

Siamo inseguiti da oltre cinquemila uomini armatissimi, imbaldanziti dal successo e dobbiamo passare, costi quel che costi.

Basta un rapido consulto, quindi T. Dalcich piazza due 81 e prepara le granate in ghisa acciaiose, quelle dall’effetto dirompente. Una pattuglia comandata da Niny va a tastare il terreno e viene accolta da una gragnola di colpi.

Per fortuna sparano male e pioggia e buio ci proteggono. Non aspettavo altro: in codolo le bombe, prendo accuratamente la mira con due rametti e via ! La parabola è perfetta e le granate finiscono sulle prime case, dentro la stanza da dove ci spiano e ci tengono sotto tiro.

“Topnistvo… topnistvo (L’artiglieria), seguito da una serie di bestemmie e urla lancinanti di dolore.

I “druzi” di Obrovo, classici eroi della sesta giornata, non avevano mai ascoltato una siffatta musica e quando alle prime due, seguono altre quattro bombe lo scappa-scappa è infrenabile. Pagliaio, case, barricate e ridicole piazzole vanno a pezzi e noi passiamo con i carri e con noi la massa di derelitti che si era accodata.

Un muto ringraziamento al mio istruttore d’armi e tiro Tenente Bruno Licita dell’Accademia di Modena, nonché al Tenente Renato Scarmigli che fece di me un abile puntatore.

(Passare da Obrovo non fu altrettanto facile per i tedeschi in ritirata. Ammaestrati dalla lezione, i partigiani si attestarono a difesa con bocche da lupo e piazzole “vere”. Il paese si trasformò in una insidia mortale per chi tentò, in seguito, d’attraversarlo).

Ore 24.00 – Ci lasciamo dietro Marcossine e siamo in vista di Matteria e poi Trieste; pochi chilometri ancora, forse quindici, ma a quel punto potremmo dirci veramente fuori pericolo ? E’ un enigma quello che ci attende e parecchi non se la sentono di continuare a ritirarsi oltre, anche se, nella grande città, non saprebbero dove rifugiarsi e non è problema di poco conto. Io chiederò ospitalità agli zii ma spero ardentemente di fermarmi il meno possibile. Vorrei poter raggiungere, con mio fratello, Milano, i miei, ma vorrei soprattutto dimenticare e, come Amleto, dormire lungamente.

C’è una sosta d’obbligo: le vaccine aggiogate ai carri non ce la fanno più, quattro stramazzano, gli zoccoli spaccati che perdono sangue e bisogna frettolosamente scaricare i carri e concedere agli uomini un paio d’ore di sonno, approfittando delle casupole semi abbandonate lungo la Statale.

È tempo di riflessioni, di confidenze. Ci scambiamo con Brunello tutto quello che tenevamo dentro, vere confessioni.

“Sai” dice “mio padre è segretario comunale a Sant’Arcangelo di Romagna; potevo imboscarmi ma non volli. Ho agito di testa mia perché non volevo stare alla finestra: mi sembrava di privarmi dell’unica occasione che avevo per fare qualcosa per il mio paese…. Non volevo passare da vigliacco !!”

“Ti capisco, anche se non mi è facile condividere il tuo entusiasmo, il tuo amore, perché – dopotutto – la Patria, il paese di cui tu parli, non si può abbinare al fascismo”.

29 aprile 1945 – Ore 5.30 – Da Longera, poco al di sotto di Basovizza, ci si schiude davanti il vallone di Muggia e, sulla destra, nel lucore dell’alba, ci appare Trieste, una desolata Trieste che sotto la pioggia mostra contorni sfumati che si confondono col mare agitato. Com’è diversa dalla splendida città che ammaliò il provinciale non ancora disincantato che si entusiasmava innanzi al Castello di Miramare o al faro della Vittoria, che si commuoveva guardando i ringhianti Lupi sternanti il sacrificio dei nostri fanti nel ‘15/’18. e quando avvenne tutto questo ?

Sembrano trascorsi decenni e, invece, sono passati soltanto quattro anni ! Ricordi ottenebrati dall’angoscia che la mèta agognata possa trasformarsi in una trappola mortale, che troppo presto s’è gridato: “Talatta !” Questo Golfo potrebbe tramutarsi nel muro trabocchetto, nell’ostacolo che ci impedirà di raggiungere le nostre case lontane ed una tale prospettiva induce Brunello – benché estenuato dalla fatica e dal sonno – a continuare la marcia verso Monfalcone. Qui, d’altronde, non può contare su niente: non ha denaro né un abito borghese, un amico disposto a rischiare per lui ospitandolo.

Un abbraccio fortissimo.

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Sottotenente Carletti Bruno

L’Albo dei Caduti fiumani “lo riporta”  ucciso e sepolto a Salcano di Gorizia il 1° maggio 1945. In effetti, in quella località furono riesumate, da una fossa comune, diciannove salme di militari, ma risultano colà sepolti il 25 maggio 1945 e, comunque, poiché se ne conoscono i nominativi – tra i quali quelli di due fiumani – è inspiegabile che non vi sia quello di Brunello. Dev’esserci un errore. Gli inumati appartenevano al XIV Battaglione di Difesa Costiera e furono trucidati dagli slavi a Sella di Monte Santo il 20 e il 24 maggio e non in aprile.

Nini Grohovac, scampato al bombardamento dell’Hotel Belvedere, avendolo conosciuto in Ospedale dichiara che: “Carletti fu ucciso alla Casa Rossa (Vele Lasi)” , ma anche questa versione non risponde al vero perché Brunello ripiegò con me fino a Trieste e ci lasciammo all’angolo di Via Fabio Severo la mattina del 29 aprile 1945.

Da ricerche fatte nel dopoguerra, è assai probabile, invece, che egli sia stato assassinato ad Avasinis (Moggio Udinese) il 2 maggio 1945 e non inganni la notevole distanza che divide Trieste dalla località su accennata. Avrebbe potuto benissimo trovare un passaggio. Conoscendolo so che non sarebbe arreso ed è verosimile che tentasse di arrivare in Austria. Posso sbagliarmi, ma mi sembra importante esaminare alcune circostanze saltatemi agli occhi leggendo un’accurata cronaca di P.L.Carnier (Lo sterminio mancato).

Che avvenne ad Avasinis ?

·         Un gruppo di ex militari della RSI, massacrato bestialmente dai civili a randellate, era formato da ufficiali e militi della GNR. Provenivano tutti dalla Venezia Giulia e parlavano in dialetto fiumano;

·         Tra i massacrati anche alcuni mercenari turkmenistani, che, dopo aver operato tra Clana e San Pietro del Carso, sbandatisi si accodarono al nostro reparto fino a Trieste. Parecchi di costoro seguirono Brunello diretto a Monfalcone. Me ne ricordo perfettamente.

Di questi massacrati si ignora il luogo di sepoltura. Corre voce, addirittura, che dopo la strage, i cadaveri furono bruciati lungo un corso d’acqua. Successivamente, per ordine delle autorità americane, parte dei miseri resti fu traslata nel cimitero cosacco di Trasaghis, ma lì non esistono né lapidi né epitaffi.

Alcuni mesi dopo il conflitto, a Padova, un tale (del quale non so il nome) portò: I saluti di un collega RSI, romagnolo”.  Convinto si trattasse di Carletti, scrissi a Sant’Arcangelo e ricevetti l’accorata risposta del padre ancora in attesa del suo ragazzo. Restammo in contatto epistolare per qualche tempo, cercai d’aiutarlo come potevo, ma era inutile.

Brunello era scomparso.

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29 aprile 1945 – Ore 6.30 – La Caserma “Beleno” a Montebello è a soqquadro. Il cortile ingombro di brande, casse sfondate, infissi divelti. Radunati i suoi uomini, Relly, pateticamente, li scioglie dal giuramento, distribuisce i viveri a secco e a ciascuno stringe la mano augurando miglior fortuna.

Un gruppo di ufficiali provvede ad ammucchiare su un carro le armi, pesanti e leggere, per poterle affondare allo scalo Legnami, il più vicino. Chi se la sente (ed io tra loro) trattiene la pistola. Non si può escludere che sia una soluzione se, putacaso, dovessimo cadere in mano di quegli altri.

Così, mentre mi avvio verso la casa di Ottavio, mio zio, Niny alloggerà momentaneamente dalla sorella del milite Fazio. Piesz ha addirittura un cognato. Sia Relly che Niny, nonostante l’ora, si recano dal ”Comandante” – che abita in via San Nicolò, di fronte all’Hotel Continentale – per convincerlo a mettersi in salvo perché non è necessario anticipare quello che tra breve accadrà quando i titini entreranno in città.

In una Trieste stranamente silenziosa, forse a causa del coprifuoco, mi avvio verso Via Murat. Di quando in quando s’ode il rumore delle scarpe chiodate dei tedeschi di pattuglia.

Ore 7.30 – I Mulè, nel rivedermi ancora insaccato nell’uniforme allibiscono e Ottavio – dopo aver dato una rapida occhiata alle mie spalle – chiude l’uscio mormorando: Il portinaio è uno sfegatato filo-slavo. Nessun convenevole. La zia,come colta da apoplessia, se ne sta in un angolo dell’ingresso ed è Ottavio che si muove.

“Tore, vieni, spogliati immediatamente, fatti la barba e vai a riposare sul divano del salotto. Parleremo dopo…”.

Era esattamente ciò che desideravo di più. Dormire.

Ore 14.00 – Oltre quattro ore filate e se qualcuno non  mi scuotesse dormirei ancora, ma bisogna che ottemperi ad alcune impellenti necessità. Per primo cambiarsi d’abito, operazione che mi trova impreparato, abituato, da 18 mesi e oltre, a indossare l’uniforme. Mi sento a disagio. Giacca e brache mi stanno discretamente e non abbisognano d’aggiustamenti; anche le scarpe e l’impermeabile di un bel blu scuro, nuovissimo. Nel pomeriggio mi rimetto a dormire e sento qualcuno che – nel dormiveglia – mi riferisce di Mussolini, della Petacci, di Piazzale Loreto …..

30 aprile 1945 – ore 5.00 – Più o meno a quest’ora si è udita fischiare la sirena che non preannunzia l’incursione aerea, ma l’insurrezione.

Da una finestra scorgo borghesi con la fascia tricolore al braccio – armati di moschetti e mitra – e Guardia di Finanza correre verso il Campo di Marte e Via Giulio Cesare e – poco dopo – s’ode una nutrita sparatoria difficile da localizzare, forse dalle parti dell’Acquario e, comunque, dalla riva. Colpi a raffica sporadici, più fitti quelli singoli da fucile. Si combatte (ma questa volta senza di me).

Ore 8.00 – Devo uscire, nonostante le raccomandazioni dello zio; devo farlo prima delle 9.00, perché a quell’ora ho dato appuntamento a Niny sotto gli archi della Borsa. Dopo il primo …… impatto, ho capito che non potrò fermarmi dai Mulè. Emilia, la zia, lo dimostra in tutti i modi e la capisco benissimo. È terrorizzata.

Spero che mio fratello abbia una qualche “chance”, perché altrimenti non so davvero che fare. Indosso l’impermeabile e, sotto l’ascella sinistra, in una fondina di fortuna, ficco la “Beretta”.

Verrà ? Non verrà ? Siamo d’accordo che se uno di noi non si presenta, l’altro non deve assolutamente cercarlo. Così abbiamo stabilito: Chi viene preso è del gatto e sarebbe pura follia cacciarsi nella tana del lupo.

Non vederlo in piazza Borsa mi dà una contrazione allo stomaco, ma, poi, col solito beffardo sorriso, spunta dall’angolo di Corso Italia. Ha tardato a causa dello scontro (pallottole vaganti) che è durato parecchio. Mi riferisce sull’inutilità di convincere Porcù a lasciare la casa, ostinato come un mulo.

Resta accanto alla moglie che attende di giorno in giorno di partorire. È assolutamente indifferente a ciò che potrebbe capitargli e, soprattutto, non saprebbe dove nascondersi, magari lasciando tra le mani degli slavi moglie e suocera.

No, non mi muovo. Vi ringrazio. Non ho messo da parte una lira e mio figlio nascerà sulla paglia, come Cristo”. Denaro non ne abbiamo neppure noi. Io avevo già mandato quello che risparmiavo a mia madre e ora avrò, si e no, un migliaio di lire.

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Il “Comandante” affrontò il suo Destino come un predestinato, senza opporre resistenza. Farlo significava mettere a repentaglio la vita dei suoi cari, compreso il nascituro. Il 5 maggio su delazione di una certa signora Pucci, coinquilina dello stabile di Via San Nicolò, fu prelevato dagli sbirri dell’O.Z.N.A. (la polizia politica titina) e rinchiuso nel carcere mandamentale del Coroneo, a Trieste. Il 20 dello stesso mese fu prelevato (come dichiaratomi dalla moglie, signora Igina Porcù) e trascinato con altre centinaia di prigionieri – politici e no – nell’interno della Jugoslavia.

Da quel momento non ha più dato notizie. Si suppone impiccato a Borovnica, un famigerato campo di sterminio che non ha nulla da invidiare ai peggiori campi nazisti. Assassinato nello stesso campo dal criminale Ciro Raner, comandante di Borovnica. Costui era stato addirittura sergente di sanità nel Regio Esercito. Gode di pensione italiana. Vive in Croazia. Posso soltanto sperare che i boia titini, insuperati maestri nella tortura, si siano limitati a sopprimerlo, ma carezzo un sogno impossibile e le successive testimonianze convalideranno quanto temo.

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Il dramma triestino poteva essere evitato se solo fosse stato accolto l’accorato appello del Prefetto Bruno Coceani, ma il C.L.N. respinse sdegnosamente l’offerta del “fascista”, preferendo andare incontro alla più completa rovina e ad una nuova più dura clandestinità.

Chissà quanto – come – si sarà  pentito il dottor Miani, capo del C.L.N., della sua avventata decisione (e d’aver stretto calorosamente la mano al “liberatore” slavo sotto i portici di Chiozza in una indimenticabile mattina del 1° maggio 1945).

Ma andiamo con ordine.

“Il 30 marzo (’45), il Prefetto convocò in prefettura Oreste Rozzo, volontario giuliano pluridecorato, amico di Ercole Miani, al quale prospettò la necessità che tutte le forze marciassero parallele per schierarsi contro l’invasione slava. Coceani aveva dichiarato di cedere il potere, “sia pure con violenza formale, ciò che importa è che Trieste resti italiana. Prima l’Italia, poi i partiti. Egli disponeva in quei giorni di un contingente di circa 5.000 uomini, tra soldati territoriali, marò della X, bersaglieri, artiglieri,guardie civiche. Il Capitano di Vascello Luigi Rocca, ispettore dei reparti di Marina operanti a Trieste, Monfalcone, Rovigno, Parenzo, Lussino e Pola, disponeva di 1.800 uomini, di cui ben 500 a Trieste. Si erano, inoltre, dichiarati agli ordini della prefettura 1.200 Guardie di Finanza e 2.300 uomini della GNR, quindi una forza di circa  10.000uomini ben decisi e bene armati”. (C.Manganarò op. cit.).

Una forza davvero considerevole, prontissima a battersi, e con la quale si poteva bloccare sull’altopiano la zingaresca IV Armata jugoslava in attesa dell’arrivo degli inglesi, sin dal 30 aprile a Monfalcone. Bastava, dunque, resistere soltanto un giorno !

“Il 30 aprile 1945, il C.L.N., respinta la proposta per una unione con i fascisti in funzione antislava, rivelatesi infruttuose le trattative promosse dal Fronte sloveno, dà l’ordine di insurrezione generale sotto la direzione del comando di piazza, dopo che nei giorni precedenti (28 e 29) elementi del C.V.L. avevano aperto le ostilità. Già il 3 maggio,numerosi patrioti del suddetto C.V.L., nonché Carabinieri e Guardie di Finanza, che pure avevano partecipato all’insurrezione contro i tedeschi, vengono arrestati e deportati dalle “Stelle Rosse”. E subito dopo la spiegazione delle autorità jugoslave: <Non tolleriamo alcun ritorno, sotto nessuna veste, del fascismo, si presenti pur esso sotto la maschera del Comitato di Liberazione Nazionale….>. Nell’intento di far coincidere il fascismo con qualsiasi affermazione di italianità, gli jugoslavi attribuiscono ora la qualifica di “fascista” agli stessi membri del Comitato Giuliano di Liberazione”. (E.Maserati: “L’occupazione jugoslava di Trieste”).

FREEDOM OF SPEECH, OF  RELIGION, FROM WANT, FROM FEAR.......

(libertà di parola, di religione, dal bisogno, dalla paura)

1° Maggio 1945 – Martedì – Ore 9.00

Con cinque carri armati russi T 34 in testa, calando dalla Slovenia e dalla Cragnolia, la IV Armata jugoslava, agli ordini del trentenne Petar Drapsin, ha fatto stamani il suo ingresso a Trieste.

Pochi e sparuti gruppi di cittadini salutano l’arrivo del variopinto esercito titino, caleidoscopio di uniformi, fatto di vecchi e giovanissimi, da “drugarice” con deretani enormi, straripanti dalle brache mascoline, parodia quest’armata di ciò che dovrebbe essere una vera formazione militare. I soldati, se tali possono chiamarsi, a causa della tremenda fatica sostenuta l’ultima settimana per “bruciare” gli inglesi in velocità, si stravaccano letteralmente sul selciato, sui marciapiedi, ovunque.

Alcune centinaia salgono faticosamente per la scalinata di Piazza Goldoni diretti al Castello per “snidarvi” i tedeschi che vi sono ancora asserragliati  dopo aver abbandonato tutte le postazioni cittadine.

Ieri mattina, mentre ero in attesa di Niny, uno “Spitfire” aveva mitragliato al largo del Golfo una motozattera affondandola e provocando la morte dell’equipaggio, una decina di marinai. Ma la pretesa di certi sedicenti militari, solo perché camuffati da militari, di piegare quelli “veri” della Wermacht, fallisce miseramente di fronte alla risposta tedesca; sembra di rileggere il Bollettino della Vittoria: “…le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza….”, “….la scalinata che ascendevano con orgogliosa sicurezza…”. La risposta è sotto gli occhi di innumerevoli spettatori: barelle e barelle in lunga teoria. Gli assediati rifiutano di arrendersi e falcidiano dalle munite posizioni gli attaccanti.

Il colmo è costituito dall’apparizione, tra i feriti che vanno, di una banda di musicanti che arriva strombettando alla testa di un reparto “garibaldino”, cioè italiano, che sventola fieramente un tricolore….jugoslavo ! Giunti costoro in Piazza dell’Unità ammucchiano con zelo sacchi di terra e mattoni ai lati dell’ingresso della Prefettura e poi – atteggiamento fierissimo come si conviene a dei veri combattenti – imbracciano le armi e vi si piazzano dietro.

Ore 11.00 – Ha inizio la sarabanda. Strimpellatori di fisarmoniche e tamburelle, attaccano con le danze bosniache tra lo stupore, tra il divertito e il meravigliato, dei triestini, in specie quando i miliziani rossi, lo sguardo semispento per la spossatezza, ballano il “kolo” allacciati tra loro e gli astanti non riescono a capacitarsi che cose del genere avvengano proprio nella città alabardata.

Spettacolo indimenticabile anche per me ! “Kapica” (berretto tondo ricamato con frange), pantaloni a sbuffo con cavallo alle ginocchia, sandali per lo più ricavati da vecchi copertoni d’auto, i titini saltellano mostrando una indiscussa valentia nella danza e la “festa” si protrae sino al tocco, mentre altre bande affluiscono per partecipare alla baldoria e, per converso, spariscono rapidamente dalla circolazione quelli del C.L.N. (e i loro bracciali).

Eppure, fino all’ingresso degli slavi, se ne incontravano a centinaia, fierissimi e armatissimi. Per colmo di viltà, senza alcuna reazione da parte italiana, il “nostro” tricolore viene ammainato dal balcone della Prefettura e al suo posto s’alza il vessillo jugoslavo e la bandiera rossa.

Ma anche il più sereno e scrupoloso degli osservatori, quale io mi ritengo, essendo stato testimone, ha bisogno di ricorrere a chi ha tenuto i diari di quegli insoliti avvenimenti. Parecchi pennivendoli di regime – nell’intento di giustificare eccessi e crimini commessi dalla soldataglia slava – ci fanno sapere che Tito ignorava completamente quanto stava accadendo a Trieste, dimenticando che proprio lui aveva impartito l’ordine ai suoi pretoriani di: ammorbidire, con qualsiasi mezzo, la resistenza di quei circoli reazionari, che in Venezia Giulia non intendevano prestarsi al suo gioco: l’annessione pura e semplice.

“La città di Trieste fu occupata dagli jugoslavi il 1° maggio 1945 alle ore 6 antimeridiane. Le avanguardie erano composte da alcune migliaia di partigiani di Tito, scalcinati, stanchi e male equipaggiati, affiancati da alcune truppe del IX  Corpus e da cinque carri armati. Truppe regolari affluirono in seguito e si stanziarono nella città. Iniziarono così i 43 giorni di Trieste, durissimi e tristissimi per la grande maggioranza italiana della città e che costituirono un monito salutare per tutti quanti, con l’annessione ad uno stato comunista straniero, speravano notevoli vantaggi. I metodi usati da chi occupava la città, le foibe, i massacri, gli arresti, le deportazioni, il sovvertimento delle civilissime istituzioni di Trieste, le ruberie indiscriminate, colpirono talmente l’animo dei triestini, che in nessun modo ormai essi acconsentirebbero ad una annessione alla Jugoslavia. Queste furono le conseguenze che l’occupazione di Trieste portò a Tito. Alcuni, come ad esempio il Clissod, attribuiscono ad Arso Jovanovic la responsabilità dell’occupazione di Trieste, per la fretta di entrare in città prima delle truppe angloamericani. Se Tito avesse occupato la Venezia Giulia, eccetto Trieste, forse avrebbe potuto ottenerla alla Conferenza di Pace, ma l’aver fatto provare agli stessi comunisti italiani di Trieste che cosa fosse il suo regime, gli costò per sempre la possibilità d’avere Trieste. Le angherie non si contano più. il 3 maggio, proclami affissi sulle mura delle case, invitano gli uomini dai 16 ai 60 anni ad arruolarsi nell’esercito jugoslavo. A Pola tale arruolamento fu imposto obbligatoriamente. A Gorizia ed a Monfalcone venne preannunziato, gli arresti si susseguivano ininterrottamente. La bandiera italiana fu tolta dalla Prefettura, il C.L.N., di cui furono arrestati sei membri influenti, fu cacciato. Nei 43 giorni, secondo la giornalista Sylvia Sprigge, furono arrestate 12.000 persone. Le banche furono rapinate d’ogni loro deposito (160 milioni del ’45) e fu imposto alla città di spostare gli orologi di un’ora per “avere lo stesso tempo del resto della Jugoslavia” !  A nessun reparto partigiano italiano (tranne a quelli che si battevano sotto bandiera slava) fu concesso di mettere piede nella città e questo dopo che gli stessi erano stati falcidiati con l’esporli nei punti di maggior pericolo e, addirittura, decimandoli con fucilazioni, come avvenne con l’intero Battaglione “Istria”.  Alla fine, per rabbonire la parte italiana, furono fatti venire a Trieste i “garibaldini” della Divisione “Garibaldi-Natisone” e della Brigata “Fontanot”. Appena il 21 maggio, duemila di essi sfilarono per la città senza che la popolazione per altro dimostrasse se non disgusto. Il 12 giugno le forze jugoslave lasciarono Trieste e la loro uscita fu accompagnata da manifestazioni di incontenibile gioia da parte di tutti i triestini” (Diego De Castro “Trieste 1943/45” ).

“L’esercito di Tito ? La IV Armata, il IX Corpus ? I volontari dell’armata di liberazione ? Hanno l’aria misera e abbrutita, stracca sino allo sfinimento, di poveri contadini “Ciapai col s’ciopo”, cioè costretti con la forza. Contadini, boscaioli, pastori. Posso, in questo momento mentre li guardo, anche comprenderli. Per mesi, per anni si è fatto balenare dinanzi ai loro occhi, abituati solo al verde dei campi, dei pascoli e dei boschi o alle lande pietrose, un’immagine, sempre la stessa: la grande città in faccia al mare, più vasta e bella d’ogni altra che avessero mai vedute. Trieste, che attendeva d’essere liberata da loro; e questo sarebbe stato il loro premio, il compenso per tutti i sacrifici; entrarvi per primi, esservi accolti in un delirio di popolo, da liberatori…. Sfila la misera turba e non si apre una finestra, non sventola una bandiera, non corre un triestino a gridare “Evviva” sulla via. Silenzio, porte e finestre sbarrate, e strade deserte ovunque. E, se incontreranno qualcuno, li guarda senza ostilità, salutandoli col pugno chiuso e alzato, appena gli rivolgeranno la parola egli risponderà in una lingua che non capiscono, risponderà (ma dove sei, o jugoslavenski Trst ?) proprio nell’esecrata lingua italiana ! Forse hanno sentito, o cominciano a sentire, l’ostilità di Trieste, un unico desiderio, mentre calcano coi piedi doloranti le pietre della città, fa vibrare i loro animi: tornare alle proprie case, alle donne e ai bambini. Ciò, bisogna dirlo, fa anche pena. Specie se si considera il loro aspetto di poveri diavoli stremati, abbrutiti, terribilmente straccioni in confronto coi neozelandesi dalle belle divise soltanto impolverate, rosei, ben nutriti e ben sbarbati. Ma il popolo, nel suo rancore, è implacabile, l’aspetto pietoso degli jugoslavi (possiamo ben chiarirlo perché fra gli uomini di Tito non c’è, contrariamente a quanto si andava affermando, neanche un italiano), i loro abiti scompagnati e i loro volti macilenti e sporchi di barba non rasata, non fanno che accrescere, semmai, il disgusto dei triestini. (P.A. Quarantotto Gambini “Primavera a Trieste”).

“Quando il 1° maggio le prime formazioni militari jugoslave fanno la loro apparizione a Trieste, buona parte della città era sotto il controllo del C.V.L. Dei 56 centri di resistenza tedesca efficienti al sorgere del 30 aprile, restavano ancora in possesso del Maggior Generale Linkebach (dal 23 Comandante di tutte le forze tedesche dislocate in Trieste) un esiguo numero di basi munitissime, tra cui la Villa Geiringer, sede del Comando generale, il Castello di San Giusto, il Palazzo di Giustizia, la stazione delle FF.SS. ed il porto. Agli assalti contro i tedeschi avevano partecipato, assieme ai patrioti del C.L.N., le Guardie di Finanza e numerosi elementi della Guardia Civica già organizzata clandestinamente dal Comitato, mentre nei rioni popolari e nelle zone periferiche erano intervenuti pure gruppi di comunisti. Agli scontri violenti che si susseguirono nelle zone centrali, non parteciparono gruppi controllati dal movimento sloveno che, invece, intervennero frammentariamente nei rioni periferici e non corrisponde ai fatti l’azione da essi vantata in difesa degli impianti portuali. Il congiungimento tra gli insorti italiani e le avanguardie della IV Armata jugoslava avviene al centro cittadino verso le 9.30. Un reparto avanzato, agli ordini del Tenente Bozo Mandac della XIX Divisione d’assalto, appoggiato da carri armati leggeri, si attesta presso i Portici di Chiazza. Dopo uno scambio di formalità tra Ercole Miani e altri rappresentanti del Comitato, l’ufficiale comunica che il suo compito è quello di attaccare i capisaldi tedeschi. In linea di massima, fino alle ore 12.00 del 1° maggio, il comportamento delle truppe slave regolari si mantiene normale. Successivamente, per il sopravvenire di elementi faziosi, aizzati dal Comitato sloveno, si profila un cambiamento radicale della situazione, contrassegnato dall’accanirsi di sentimenti ostili verso i patrioti del C.V.L.   Così si verificano, di fronte alle pretese jugoslave della consegna delle armi da parte dei patrioti, alcuni scontri a fuoco tra jugoslavi e italiani. A Roiano, a Rozzol e in altri punti della città ci scappano morti e feriti. Verso le prime ore del pomeriggio del 2 maggio, arrivano a Trieste le avanguardie alleate.

 I reparti corazzati neozelandesi raggiungono gli ultimi presidi tedeschi ancora resistenti in città, ottenendo dai loro comandanti la sospensione del fuoco e l’apertura di trattative di resa. I tedeschi avevano, in precedenza, rifiutato di arrendersi alle forze jugoslave e cercato, come nel caso del presidio di San Giusto, di trascinare a lungo le trattative, in attesa proprio dell’arrivo degli alleati. I soldati iugoslavi, coadiuvati da elementi del Fronte di liberazione sloveno, nella sera del 2 maggio, si erano recati alle carceri del Coroneo liberandone i detenuti, tra i quali si trovavano molti delinquenti comuni”.(E.Maserati “L’occupazione jugoslava di Trieste”). (Liberarono, ignari, anche il “detenuto” Generale Giovanni Esposito, Comandante militare regionale durante la RSI)

2 maggio 1945 – Ore 14.00 – Inglesi in vista !  E’ la 2° Divisione neozelandese. Ne ha coperto di strada da El Alamein, ma giunge con studiata lentezza, addirittura, ai più sospetta. Non può essere altrimenti se – come dichiarato – il Comandante del C.V.L., Colonnello Savio Fonda, triestino e patriota, dovette recarsi di persona a Grignano (appena sopra il Castello di Miramare) “…per sollecitare il Generale Freyberg ad intervenire esponendogli la critica situazione venutasi a creare con l’arrivo degli jugoslavi…”  E Freyberg, bilioso avversario degli italiani – cui non perdonava certe batoste africane – si limitò ad entrare in città – i tedeschi ancora resistevano ai titini al Castello – come un qualsiasi ospite degli straccioni e non come il “vero” occupatore, considerato che a “lui” i nazisti chiesero la resa !

   L’ingresso, comunque, fu salutato con manifestazioni di grande entusiasmo, benché,

   da Via Ghega al Foro Ulpiano, “drugarice”, lazzaroni del Comitato sloveno e altri degni

   compari tentassero in tutti i modi di impedire ai “veri” abitanti di Trieste di

   esprimere la loro gioia.

Personalmente – io c’ero – vidi allentare schiaffoni e pedate a chiunque “osava” sventolare il tricolore italiano.  Le brave ragazze “s’ciave” – con manifesti enormi – s’affannavano in prima fila per mostrare “il vero volto di Trieste”, nonché “l’ardente desiderio della città d’essere unita alla Federativa Jugoslava” .

I balconi delle vie attraversate dagli inglesi straripavano di vessilli jugoslavi e di striscioni inneggianti a Tito. Del resto nessuno, che non  fosse stato preventivamente “filtrato”, poteva avvicinarsi, rossi compresi e nonostante ciò a me è sembrato che l’urlare a squarciagola: “Trst je nas” non abbia convinto i paffuti soldati di S.M. Britannica; essi – con buona pace di molte banderuole dell’epoca – sapevano benissimo che quella a cui assistevano era un’assai pessima sceneggiata !

3 maggio 1945 – In Via Carducci ho visto un omaccione in divisa d’ufficiale russo…. Sono anche qui !  Grandi spalline sulla giacca color cachi, colletto chiuso. Brache alla cavallerizza, stivali rigidi, berretto con frontino lucido largo due dita, atteggiamento un po’ “blasé”, visto come fissava la gente.  E sì che c’erano i soliti entusiasti che se lo mangiavano con gli occhi !  Contenti loro……

Ore 13.00 – Da una finestra di casa Mulè ho assistito ad una scena …. scatologica !  Un carro armato titino fermo nel giardinetto antistante Via Murat e ne esce un giovane carrista, sorridente. Tra lo stupore dei presenti (ho contato una decina di persone), si cala i pantaloni e scodella una fumante, liquida“cagada” !  Mi auguro di vero cuore che ciò non sia nella prassi della “superiore” civiltà glagolitica !

Oggi Fiume è stata occupata dalle bande titine. Qualche ora prima i nazisti, ponendo in atto l’ultimo inutile vandalico gesto, hanno fatto saltare in aria la polveriera di Centocelle, che ha causato il crollo di numerose case e la morte dei suoi abitanti.

Prima dell’avanguardia partigiana, per circa cinque ore – come riferisce uno scampato all’occupazione – la città ha respirato aria di libertà e sui tre pennoni sono state issate le bandiere italiane e fiumane, ma è stata una breve illusione perché non c’erano italiani in arrivo né navi alleate nel canale di Farèsina. Sono giunti “quegli altri”, assetati di sangue, decisi a farla pagare all’odiato “talianski”, inferociti e umiliati assieme per la tenace resistenza, scornati nell’apprendere che Fiume aveva resistito più di Zagabria, più di Lubiana, nell’apprendere che si combatte ancora attorno alla città olocausta.

Immagino quello che avverrà adesso, lo leggo sui volti di quei militi fiumani che incontro per le strade triestine e con i quali evitiamo di scambiarci saluti e confidenze per non dare nell’occhio, attirando i sospetti di qualche carogna.

Dicevo che è facile immaginare, perché stiamo vivendo un identico dramma. Colonne e colonne di derelitti, i polsi avvinti dal bestiale e collaudato fil di ferro, che si avviano verso un ignoto destino senza che uno solo degli stravaccati anglosassoni, onusti di medaglie, lasci un momento la poltroncina del caffè per chiedere ai “compagni” dove conducono quei prigionieri. Eppure, con le mie orecchie ho udito le invocazioni d’aiuto levarsi dalle file dei deportati(erano un centinaio di Guardie di Finanza – Tra essi anche un parente, Pietro Cannizzaro) e ho visto la gente segnarsi con la croce, prèsaga di ciò che sarebbe avvenuto a quegli infelici ! Era tutto previsto.

Gli slavi, a Trieste, si comportano come in Slovenia o in Croazia, arrogandosi il diritto di decidere della sorte di persone che mai sono stati croati o sloveni. Escono in vincoli gli italiani ed entrano i villici del contado, zotici inquadrati e spinti a manifestare nel timore di incorrere chissà in quale castigo se si rifiutano.

Niny, col quale s’era stabilito di incontrarci oggi al Ponte Rosso, è giunto con un’ora di ritardo e questo benché sappia che m’impensieriscono anche dieci minuti.

Si giustifica col dire d’aver cercato un altro alloggio perché la sorella di Fazio non intende più rischiare visto quello che accade in giro. Ed io, allora ? Quanto durerò da Ottavio ? Sulla Riva 3 Novembre ho veduto – abbandonati su una panchina, gli sguardi persi nel vuoto, la testa sul petto – i genitori e il fratello di Vittorio Pappalardo. E mi chiedo il perché di un destino così amaro.

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Il Guardiamarina Vittorio Pappalardo, favorito nella sede di servizio, allorché – quale ufficiale della X MAS – fu destinato a Laurana, non ebbe eguale fortuna quando i titini  della IV Armata sbarcarono a Moschiena il 25 aprile 1945. Il suo reparto riuscì a sganciarsi e a ripiegare – combattendo – su Mattuglie, ma la strada nazionale era già sbarrata e i 130 uomini dovettero affrontare un cruentissimo scontro a Franci. Secondo testimoni assai attendibili, ben 90 marò e ufficiali lasciarono colà la vita e i superstiti (non so se tra questi c’era anche il mio amico) con una marcia estenuante tra le forre del Monte Maggiore, giunsero stremati a Castel Lupogliano.  Qui si concluse il dramma. Colti nel sonno, circondati da ogni parte, non ebbero scampo. Volevano raggiungere Trieste per l’antica carrozzabile istriana e se – a quanto mi è stato detto – non fosse stato per la codardia d’una sentinella (che invece di dare l’allarme, si allontanò alla chetichella dal posto di guardia), forse ce l’avrebbero fatta.

Non uno fu risparmiato, tranne colui che consegnò i compagni alla rabbia del nemico.

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5 maggio 1945 – Sabato, giornata luminosa ed è davvero sorprendente come l’uso di un rasoio e di un pettine possa trasformare un individuo !  Lo specchio mi rimanda un volto liscio, quasi piacevole, dai tratti delicati, capelli ben ravviati; una faccia che non ha nulla in comune con quella dell’istruttore Tore. E quando indosso l’impermeabile e calzo le scarpe di vernice nera, non uno dei vecchi conoscenti potrebbe riconoscermi… Narcisismo ? No…. Soddisfazione d’essere in vita. Domanda: posso uscire o, come mi consiglia paternamente lo zio: “…resta in casa…temo che oggi avverranno cose imprevedibili…”. Come faccia a sapere non lo so, ma certo al Cantiere San Marco apprende più di quanto non apprenda io per strada. È sempre molto considerato e gli stessi jugoslavi lo trattano rispettosamente, consapevoli d’avere a che fare con un tecnico di grande valore. Ma io “devo” recarmi all’appuntamento con mio fratello per concertare, se sarà il caso, la fuga al di là dell’Isonzo, visto che anche Niny è “fuori”.

Dalla gabbia triestina non si scappa e una volta chiuso il sacco, quegli altri cominceranno la cernita. Bisogna fare presto, trovare un salvacondotto.

Pare che soltanto gli inglesi te lo possono rilasciare e, dopo tutto, la guerra è finita, o quasi, visto che il 30 del mese scorso Hitler si è suicidato. A questo punto, ristabilita la pace, i soldati smettono l’uniforme e tornano a casa. Non è stato sempre così ?

Parlo e mi rispondo ignorando volutamente che in questa città non vige la “Convenzione di Ginevra” e che i “compagni” vi spradoneggiano strabuggerandosene delle proteste di mezzo mondo. Meglio non pensarci.

Passeggiare calma i nervi e Trieste è bellissima in questa incipiente primavera post-bellica. Piazza Unità, Via Carducci, il lungomare ove puoi registrare deliziose scenette; gruppi d’individui che frugano nella pattumiera dell’Hotel Lloyd alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, perché gli inglesi, gli ufficiali, consumano poco pane e quello che resta sui tavoli, bianchissimo, finisce generalmente nei cassonetti. Sono tentato anch’io… chissà !

Ma che sta succedendo ? Da qualche parte – non lontana – s’ode un brusio in crescita, finché, avvicinandosi, non si trasforma in clamore. Guai in vista … Non posso incorrervi in nessun modo e, benché debba incontrare Niny, preferisco fare “dietro front” e tornare dai Mulè.  E stupidamente imboccò la strada sbagliata !  Ho di fronte a me una massa incredibile di gente, scantonano da ogni parte e su un furgone scorgo una decina di giovani che agita una bandiera italiana e urla a perdifiato: “ITALIA, ITALIA, ITALIA…..”  Sono impazziti ? Allora “tutta” quella folla è impazzita ed io, dimentico della mia particolare situazione (e della pistola tenuta sotto l’ascella), m’intruppo con la moltitudine che ora si dirige, una vera fiumana, a Piazza Goldoni.  Intanto, altra gente accorre da Via Carducci e Via Tarabocchia, si accalca come se temesse di perdere un avvenimento unico e dalle finestre si sciolgono bandiere“nostre”, perfino con lo stemma sabaudo. E poi, canti, berci… “Lassa pur che i subi e i zighi che ne fazzia dei dispetti, nella patria de Rosseti non si parla che italian”. Ora ho capito: hanno comunicato che è finita la guerra e forse arrivano i “nostri” soldati, come nel 1918.  Perfino i flemmatici “figli di Albione”  sorridono e scattano foto e riprendono la marea di gente, le teste, i vessilli sventolanti, salutano…. Oh Dio, gli inglesi salutano la folla …… Vuoi vedere che “druze Tito” se ne torna ai patri lidi ?

Come si fa a contenere la gioia ?  Qui ci sono almeno 50.000 persone che si sgolano, che si abbracciano e ne continuano ad arrivare altri. “ITALIA, ITALIA, ITALIA…..”

Dove sono le cacofoniche orchestrine calate dal Carso ?

Sparite ! Spariti i cortei degli appecoronati, le facce meste di adulti e bambini costretti a marciare al grido di: “Trst je nas, Trst je nas….”.

Ed in quella, all’orecchio di un esperto, non sfugge il rafficare d’un mitra.

Sparano in Via del Corso.  La moltitudine si arresta, sbanda paurosamente mentre s’odono altre raffiche. Le grida di gioia si trasformano in urla di terrore. La folla, che un attimo prima marciava compatta, marzialmente, si apre disperdendosi, calpestando chi cade, cercando affannosamente un rifugio, un riparo negli androni e nei pochi negozi ancora aperti mentre “quegli altri” sparano incuranti degli inglesi che li riprendono dall’alto di una “jeep” con una cinepresa.

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“Si arrivò così alla mattina del quinto giorno di occupazione, che un banale gesto di entusiasmo di un soldato neozelandese si tramutò in una giornata tragica, di grande dolore. Riportiamo, dalle citate dispense di Livio Grassi, triestino, quanto egli scrisse sugli avvenimenti di quel giorno:

“Era di sabato. Finito il coprifuoco, la gente uscì per il disbrigo degli affari quotidiani. Si attendeva, di ora in ora, il crollo della Germania e si confidava in una più logica comprensione, per noi, al tavolo della pace. Una manifestazione “comandata” dagli aderenti alla politica titina era arrivata in Piazza Unità. Manifestazione povera, formata da pochi campagnoli, alcuni tranvieri, poche donne. In testa al corteo bambini e bambine, con un copricapo di foggia militare chiamato “titoica”, sventolanti bandierine dai colori della Jugoslavia. Qualche capannello si era formato ad osservare quel corteo e a commentare quelle manifestazioni fatte in continuazione. Qualcuno asseriva che quella povera gente scendeva dai paesi della provincia sotto la minaccia di guai peggiori. Si fermò a contemplare quello strano spettacolo qualche soldato neozelandese. Una donnetta del popolo si tolse dal seno un tricolore italiano e sventolandolo, gridò: “VIVA L’ITALIA”.  Un soldato, forse compreso dal dolore che opprimeva la popolazione triestina, e commosso dal gesto della donna, afferrò il tricolore e, dopo averlo sventolato, se lo legò al collo. Fu un attimo. Chi notò il gesto lanciò un urlo di gioia; il soldato neozelandese fu sollevato da molte braccia e, tra gli applausi dei presenti, portato a spalla. Dove ? Furono momenti di incertezza. Al gruppo si unirono parecchie centinaia di persone, altre ancora se ne accodarono via via che esso procedeva. La prima tappa fu sotto la loggia della Prefettura, il gruppo poi ritornò sotto il Municipio. Ormai, al seguito erano a migliaia. Di tanto in tanto grida di: “VIVA L’ITALIA….QUI E’ L’ITALIA….” La manifestazione “comandata” si sciolse alla chetichella, mentre l’altra aumentava a vista d’occhio. Chi abitava nei pressi di Piazza Unità, o vi si trovava per caso, informò telefonicamente i propri conoscenti che stava formandosi una manifestazione italiana e bisognava parteciparvi. In breve la gente cominciò ad affluire da ogni dove. Sempre col neozelandese portato a spalla, i manifestanti ripassarono dinanzi alla Prefettura e, per la Riva 3 Novembre, giunsero dinanzi l’Hotel de la Ville, dove alloggiava il Comando slavo, insediatovisi da alcuni giorni perché prima era stato requisito dai tedeschi. Al clamore della folla inneggiante all’Italia, uscì un ufficiale di Tito, il quale saltato su una scaletta di un camion che sostava davanti all’albergo, in italiano abbastanza corretto, chiese: “triestini, cosa volete ?” – “ITALIA, ITALIA, ITALIA” scandiva ad una voce la folla che ormai incoraggiata cresceva a vista d’occhio. Forse la presenza del soldato alleato consigliò l’ufficiale titino di mantenersi calmo e così rispose mielosamente: “Ma Tito non vuole Trieste, solo il benessere della vostra città !” La folla continuò a gridare “ITALIA !” e lasciato in tredici lo slavo si diresse verso Piazza Tommaseo. Qui il grosso si divise, una parte verso Via del Corso, un’altra risalì la Via San Nicolò fino a Via Dante e venne ad ingrossare la fiumana di gente che affluiva paurosamente. Alle finestre venivano esposti i tricolori d’Italia, molti ancora con lo stemma savoiardo. Da altre finestre tricolori di carta venivano gettati alla massa umana che arrivò fino al Largo Barriera Vecchia. Qui, dopo un senso di disorientamento, la colonna ritornò sui suoi passi e, in Piazza Goldoni, si intesero voci gridare: “A SAN GIUSTO…..A SAN GIUSTO…..” piegò allora per Via Silvio Pellico, ma fece una sosta perché dal poggiolo della redazione de: “IL PICCOLO”, uscirono tre giovani, uno dei quali, il capitano in congedo Bruno Gallico, parlò alla folla ricordando i morti di Redipuglia e concluse dicendo: “Comunisti sì, ma italiani….” Le parole di Gallico arrivarono subito al cuore dei dimostranti ed una voce urlò: “Al Sacrario di Oberdan!” intonato l’inno di Mameli, la moltitudine (si calcolano circa 50.000 persone), riprese il Corso per girare per Via Imbriani e in Via Dante e, di là, per Via Carducci raggiungere la Cella del Martire. Quasi all’altezza di Piazza Goldoni la folla incontrò uno sparuto gruppo di dimostranti pro-Tito che, poco prima, erano stati visti in Piazza Unità e tanti se la squagliarono. La manifestazione aveva ormai del fantastico: alcuni neozelandesi in camionetta, appartenenti all’Ufficio Propaganda, presero posto in Piazza della Borsa e, su alcune finestre prospicienti il Corso, cinematografavano e scattavano fotografie.

Una pattuglia di soldati slavi (erano dentro una Bar all’angolo di via Imbriani) messasi in ordine di sparo, senza alcun preavviso, aprì il fuoco sulla folla. Altre pattuglie inferocite spararono anch’esse sulla gente e sulle bandiere alle finestre. La folla cercò di porsi in salvo nelle vie laterali, nei negozi, nei portoni e nelle vicine abitazioni. Gente travolta e calpestata, invocazioni d’aiuto, urla e grida di dolore, tutto avvenne in pochi attimi. Poi il Corso e Piazza Goldoni rimasero deserti: per terra, sull’asfalto, cinque morti e una trentina di feriti …..”. (M.Vaina – “Trieste italiana”).

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Sono trascorsi più di quarant'anni ma io non riesco a levarmi dalla mente quell’orrido spettacolo, perché quei morti “io” li vidi, così come vidi il volto del boia, tanto che ancora potrei descriverlo. Il mitra tedesco fumante tra le mani, lo slavo calpesta – rabbiosamente – la bandiera di carta italiana sorretta qualche minuto prima da un giovane sul motofurgone ora rovesciato su di un lato, verso i grandi negozi di Beltrame e vidi il sangue e le cervella d’un ragazzo che si agitava negli ultimi spasimi dell’agonia e la gonna sconciamente sollevata d’una donna e ricordo come, fissando l’assassino, ebbi subito un moto istintivo: tirare fuori la Beretta e abbatterlo come un cane. Non potevo mancarlo, era a poco più di dieci metri.

“Uccidilo” – mi dicevo – “sii il vindice di questa martoriata città”. Ma l’Angelo di Abramo mi trattenne.

Ero solo un vigliacco, desioso di vivere e mi sovvenni delle parole lette su un libro di De Kruif: “No, non voglio morire, di troppi uccelli io non so ancora il canto. A ricordo dei miei ventanni”. E mi allontanai come in trance.

Procedendo a tentoni, un vecchio signore, qualche passo più avanti, mormorava monotono, perché lo slavo ne faceva strame spregiatamene sotto gli stivali: “La Bandiera d’Italia, la Bandiera d’Italia….”.

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 “GRANDI CRUDELTA’ SONO STATE COMMESSE IN QUELLA ZONA CONTRO GLI ITALIANI, SPECIALMENTE A TRIESTE E A FIUME. LE PRETESE AGGRESSIVE DEL MARESCIALLO TITO DEVONO ESSERE STRONCATE  (WINSTON CHURCHILL A STALIN, 23 GIUGNO 1945).

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  E’ del tutto comprensibile perché – ora – gli jugoslavi (sfumata l’annessione di Trieste)

  non amino i triestini.

Probabilmente, ritenevano che alcuni metodi sbrigativi usati nel loro paese (e ne cito uno supponendo che basti: il  “rito del cuore” , che consiste nello strappare quest’organo del nemico ancora vivo, alla maniera dei sacrifici Aztechi. Posseggo ancora le foto ricavate dal settimanale croato “Muceniska Pot Ksvobodi”) si potessero impunemente applicare anche agli abitanti della città alabardata, ignorando la storia del suo popolo, le tradizioni e l’autonomia, nonché la civiltà delle sue genti.

Eppure, a sentirli, ed io ho tante occasioni, essi considerano i triestini dei veri traditori. E non soltanto gli slavi. C’è nel nostro amabile paese chi insiste nel negare una qualche astiosità nei rapporti fra Trieste ed il suo hinterland, soprattutto slavo, necessario complemento ad una città che vive essenzialmente di commercio.

6 Maggio 1945 – Repressione in crescendo. Gli arresti si moltiplicano e in serata sono spettatore, ahimè, dell’ennesimo alterco tra Emilia ed Ottavio (per causa mia). Zia accusa il marito di disaffezione e Ottavio, pur cercando di non alzare la voce per non farsi sentire da me, risponde che non può mettere, in frangenti simili, il figlio di sua sorella in mezzo alla strada.

Devo andarmene, anche se in questa mortale trappola non c’è posto per un “lebbroso fascista”.  Gli alberghi sono mèta diuturna degli agenti dell’OZNA, i rifugi antiaerei sbarrati e pattuglie di militari slavi sorvegliano di notte tutte le strade. E non ho il becco d’un quattrino. Domani venderò gli stivali.

Devo assolutamente lasciare questa casa; se dovessero arrestarmi qui, trascinerei i Mulè nella rovina. Emilia ha ragione. Inventerò una scusa qualsiasi per rendere il distacco meno penoso e andrò incontro al mio destino.

“Mektub !”, dicono gli arabi. Se solo riuscissimo a varcare l’Isonzo, magari via mare, da Duino a Punta Sdobba, dall’altra parte.

Devo seriamente discuterne con Niny e, intanto, bisogna liberarsi della pistola. Dopo quello che è successo ieri mattina, non posso più fidarmi delle mie reazioni. Un manifesto: “Komando Mesta Trst - <La popolazione è invitata a consegnare ai centri di raccolta dei sottonotati quartieri, una coperta e 10 kg. Di patate, ecc…ecc…”. Non è uno scherzo: comparve sui muri della città per sparire il giorno dopo.

7 Maggio 1945 – Niny conviene con me che non è più il caso che io mi fermi in casa Mulè. E stamani, subito dopo la cessazione del coprifuoco, abbracciato Ottavio, ho lasciato definitivamente l’appartamento di Via Murat. Alla zia ho detto che mio fratello ha trovato un comodo passaggio per Venezia e lei ha fatto finta di crederci. Lo zio, che ha capito ogni cosa, mi accompagna al portone e mi mette in tasca, commosso, tremila lire.

Il dado è tratto e sarà quel che sarà.

In attesa di mio fratello, in Piazza Unità, un tizio dalla faccia patibolare – il collo avvolto da un fazzolettone rosso – mi blocca chiedendomi perentoriamente, da sbirro dei tempi andati, i documenti. Ed io, cercando di mantenere la calma (la Beretta l’ho lasciata cadere in mare al Molo Venezia) gli mostro la carta d’identità rilasciatami a Milano. E il “compagno”, dopo averla esaminata, mi batte amichevolmente una mano sulla spalla: “Milanese… Bravo !  i milanesi hanno fatto fuori quel porcone di Benito” e mi stringe calorosamente la mano. Mi sono allontanato lentamente, cercando di arrestare il tremore alle gambe: se mi fermava uno dell’OZNA, difficilmente avrei potuto convincerlo ! Perché gli sembrano colti dal timore di dover abbandonare, per un motivo che mi sfugge, la caccia all’uomo.

Forti di un metodo collaudatissimo in Spagna (leggi compagno Marty), arrestano chiunque dia adito a sospetti e, secondo la vecchia, buona norma comunista: “E’ meglio far fuori un innocente, che lasciarsi scappare un colpevole !”.

Con Niny, Piesz e Fazio abbiamo cercato un posto dove io possa trovare ospitalità. Problema di non facile soluzione, addirittura irrisolvibile.

E se mi consegnassi e la facessi finita ?

Ho incontrato l’amico, nonché “camerata” (sino al luglio 1943), Aldo Pescatori, accompagnato dal genitore, ex Colonnello della G.a.F. (Guardia alla Frontiera) a Clana. Ovviamente, oggi ammiratori e inneggiatori di Tito !

8 Maggio 1945 – Ho trascorso una notte agitatissima; mi ha ospitato una ex guardia civica, collega del cognato di Piesz, ma era talmente spaventato che stamani – dopo essermi rivoltato su un materasso steso sul pavimento – ho ringraziato e mi sono allontanato.

La Germania si è arresa.

C’era una radio a gracchiare nell’Ufficio postale di Piazza Vittorio Veneto, ma nessuno ha esultato. Allo sportello del Fermo Posta ho “intoppato” l’ex Intendente di Finanza di Fiume, il dottor Rapisardi. Ha fortunosamente lasciato la città da un paio di giorni e spera d’ottenere dagli inglesi un lasciapassare, dagli inglesi perché:” …non provate a domandarlo al Comitato di Barcola: è una vera pania, peggiore del vischio….”.

Per sommi capi mi ha accennato alla tragedia che si sta consumando a Fiume, alle barbare uccisioni di Blasich, di Gigante, di Skull e di altre decine di conoscenti comuni. Vive nel terrore d’essere riaccompagnato laggiù, benché, sin dal 1920, non abbia più indossato una uniforme.

Dove dormirò stanotte ?

Niny spera d’accasarmi da un parente di Fazio, dalle parti di Rozzol, e sarebbe la soluzione migliore, perché quel quartiere è sempre stato una roccaforte dei rossi. A mezzodì abbiamo mangiato, in una lurida taverna di Via Cavana, “gnocchi di pane” da vomitare !  Nel pomeriggio, nonostante il consiglio dell’ex Intendente, ci siamo recati col tram a Barcola, alla sede della Milizia popolare, sperando di ottenere un permesso d’uscita. All’interno, dietro un tavolo, un tipaccio assistito da due pendagli da forca con tanto di cinturone e pistola, esaminava la gente come si fa con gli insetti repellenti e, ad un tratto, ha urlato scandendo bene le parole: “Non pensate di farmi fesso ! Chi deve rendere conto delle sue malefatte alla giustizia popolare, non esce da Trieste…”. E i questuanti, vilmente, ad annuire, buoni, fedelissimi sudditi di S.M. Josip Broz !

Si avanza un passo dietro l’altro e, tranne rarissime eccezioni, a nessuno viene concessa la “Propusnica” (il lasciapassare) e poi Niny mi dà uno strattone invitandomi con lo sguardo a seguirlo fuori. “Lo vedi quel signore seduto dietro al capoccia ? E’ il Prefetto di Zara, il dottor Sorrentino…. Questi figli di puttana hanno precise segnalazioni e non è escluso che abbiano anche le nostre foto…”.

9 Maggio 1945 – Dal conoscente di Fazio, quello per intenderci “sicuro”, ho dormito una sola notte. Nel pomeriggio (per fortuna ero fuori) sono venuti a prelevarlo: destinazione Coroneo ! Ed ho fame. E pensare che prima ero io a “sfamare” Niny portandogli cibarie “rubate” in casa Mulè ! In Via Cavana, “gnocchi di pane e va’ in malora”, non ci torno ! Ma il Signore aiuta anche i “lebbrosi” come noi.

Al di là della galleria Sandrinelli, tra Via Madonnina e Via del Bosco, all’angolo, scoviamo una piccola, linda trattoria, dove abbiamo mangiato un’ottima “brovada” !

Un problema è risolto, ma dove dormirò stanotte ? Tra poco scatterà il coprifuoco e non siamo stati capaci – in tre – a cavare un ragno dal buco. Perfino Fazio è nei guai perché la sorella l’ha pregato di trovarsi una tana altrove. Sconsolatamente, finiamo, nel nostro inutile vagare, al bordello, mèta di inglesi e miliziani in fregola, e dall’aspetto miserando e abbattuto, la “maitresse” mangia la foglia e, senza tante perifrasi, ci invita a restare. Proprio così. Ci sistemerà per la notte nella stanzetta riservata si “monsignori”. Hanno avuto più misericordia quelle Signore (con la S maiuscola) che i nostri parenti !

10 Maggio 1945 – Argeo Penco, un milite che prestava servizio nella fureria della 2°  Compagnia Arditi, ci riferisce sconvolto d’avere assistito ieri alla fulminea cattura di Relly in Piazza rossetti. Lui era in attesa del padre, quando ha notato gli scagnozzi dell’OZNA (Odsjek za zastitu narodna = Presidio per la difesa nazionale), quelli che girano per Trieste su una “Topolino” nera, targata FM (Fiume), buttarsi letteralmente addosso a Piesz. Ne è ancora scosso e ritiene che presto tutti faremo la stessa fine !

Relly era un imprudente: girava con addosso un impermeabile di foggia militare, con la schiena segnata dalla ruggine della spallaccia, e calzando gli stivaloni. E tutto per poter incontrare una ragazzetta, già ausiliaria del 3° MDT.

*  *  *

Il Tenente Aurelio Piesz, da notizie successivamente raccolte tra i profughi, fu condotto, legato come un malfattore, a Ruppa di Elsane. Il 17 maggio fu impiccato al medesimo palo telegrafico, sul quale erano stati appesi dalle SS due partigiani, un uomo e una donna, nell’aprile del 1944. con lui morì di capestro anche il Sergente Maggiore Scali, da me erroneamente considerato prigioniero dei titini. Andò, invece, molto diversamente. Scali disertò per nascondersi in casa d’una bagascia locale, la quale, arrivati i partigiani, s’affrettò a consegnarglielo. Ma “l’originalità”, degna soltanto d’una mente sadica, fu che all’impiccagione di Relly dovette assistere la madre portata a Rupa da Fiume, una poveretta che mai s’era intrigata di politica. Viveva lavorando come sguattera Alla “Conca d’Oro”. Inutile aggiungere che Relly fu condannato senza processo; neppure un processo farsa, come quelli intentati a Rainer, Kubler o che.

Naturalmente – benché fosse completamente falso – la gente del posto dice che era responsabile della distruzione e del massacro di Lipa. In quanto a Scali, all’epoca dei fatti, non era neppure in Venezia Giulia.

11 Maggio 1945 – Anche se scarsamente verificabili, giungono dall’Italia notizie di stragi efferate. Gente ammazzata a vista, senza processo, per semplici sospetti; massacrata negli stadi, nelle carceri e perfino negli ospedali.

Soldati sono stati trucidati anche qui, nell’Ospedale Maggiore, ma mi meraviglia che accada nel “nostro” paese ad opera della “nostra gente”.

Con Niny ci siamo fatti ricevere all’Hotel Lloyd da un Capitano dell’esercito di S.M. britannica e abbiamo tentato di commuoverlo, sperando d’ottenere un salvacondotto per tornare a Padova.

Scotendo il capo e allargando le braccia, in dialetto “verace” partenopeo, ci ha risposto: “C’aggia’ fa ? A guagliò, chist’ ssò peggio de’ tedeschi…… Tenimmo ‘e mmani ligate….”

Da un paio di giorni “consumiamo” i nostri pasti nella linda trattoria di Via del Bosco. Una minestra, un tozzo di pane, tanta acqua e rizzati; una fame da contorcere le budella e meno male che, accompagnando, da perfetti lenoni, i militari inglesi al “Casino”, riusciamo a raggranellare qualche sigaretta subito smerciata.

Come dovremo saziarci ? Un filoncino di pane nero si paga sino a 30 lire, un pasto (per modo di dire) in trattoria costa 200 lire a testa ! E c’è dell’altro.

Temo di prendere la scabbia. Non solo non faccio un bagno dal 4 maggio, ma non possiamo mutare biancheria perché abbiamo solo quella che indossiamo !

E mio fratello sta peggio di me. Così, prendendo il coraggio a quattro mani, ho chiesto alla biondina che serve ai tavoli se conosce qualcuno disposto a lavarcela e, Dio la benedica, si è offerta lei. Così, per un giorno, Niny ed io siamo andati a zonzo senza mutande né camicia o calzini. Per fortuna abbiamo un letto, ma quanto potrà durare ?

L’altra sera, un reduce dalla prigionia in Austria ha tenuto desto l’uditorio dei “clienti” raccontando d’aver incrociato a Maribor una colonna formata da militari e civili croati, lunga a perdita d’occhio. “Credetemi, dovevano essere centinaia e centinaia di migliaia…. Sfilavano da giorni….” 

Quell’interminabile colonna sarebbe stata interamente sterminata dai titini pochi giorni dopo, il 15 maggio. Per saperne di più basta sfogliare il libro di Carnier, di cui ho già parlato. Esecuzione in massa di croati e sloveni, militari, nonché dei familiari che li hanno seguiti. Si trattava di collaborazionisti dei tedeschi, ma l’immane macello – oltre duecentomila essere umani trucidati – fu attuato con spietata determinazione e con l’unico obiettivo d’annientare fisicamente chiunque potesse trasformarsi all’estero in un avversario di Tito. Semplicemente ridicolo supporre che i responsabili di un tale orrendo delitto siano stati portati davanti al Tribunale di Norimberga per rispondere di crimini di guerra: è la legge di Brenno !

 Da “Sterminio mancatouna rapida cronaca”:

  “Il 6 maggio 1945 una colonna croata (si calcola complessivamente di 400.000 persone

   compresi i civili),  abbandonò  Zagabria  dirigendosi  a   Bleiburg   e   il  17   raggiunse           

   Klagenfurt.   Marciavano  disperatamente  per  consegnarsi  agli  alleati  e  sfuggire  ai

   partigiani  di  Tito.  Assieme  ai  croati,  si  ritiravano  alcuni reggimenti “cetnici”, serbi

   e montenegrini,  collaborazionisti  dei  tedeschi.  Si  ritiravano,  inoltre ,  nella  stessa

   direzione, la divisione “Skandeberg”, formata da SS albanesi,  reparti della Waffen SS

   della “Gerbig Division Prinz Eugen” , costituiti dal Wolksdeutche, la cavalleria cosacca

   di  Von  Pannwitz,   il  Battaglione  russo  Semenov,   reparti  di  polizia  tedesca  del

   Reggimento “Dahm”.

Nella tarda serata dell’8 maggio, anche l’intero esercito sloveno, abbandonate le posizioni difensive di Lubiana, aveva intrapreso la ritirata al comando del Generale Franc Krener. Contava circa 15.000 “Domobranci”.

Il 14, la colonna incontrò a Bleiburg le avanguardie britanniche dell’VIII^ Armata. Tutto sembrava risolto e, tuttavia, nel corso delle trattative di resa, vennero introdotti due commissari delle brigate jugoslave. Costoro assicurarono che tutti gli ufficiali croati sarebbero stati concentrati a Maribor per un esame del loro operato, mentre invece i soldati sarebbero stati ricondotti in Croazia e “restituiti” alle loro dimore.

La resa incondizionata venne, infine, accettata e sull’immenso accampamento venne alzata la bandiera bianca. Erano le ore 16.00 del 15 Maggio 1945.

Testimoni oculari superstiti affermano che, subito dopo il disarmo, i partigiani titini fecero crepitare i mitra per bloccare tentativi di fuga. Falciato dalle raffiche cadde un numero assai elevato di croati. A Bleiburg i britannici consegnarono circa 300.000 croati alla Repubblica federativa jugoslava. Passata la frontiera ebbe inizio un tremendo massacro. Epicentro di una vasta liquidazione la foresta di Kocevje, nei dintorni di Maribor. Il numero delle vittime si aggira intorno ai 75.000. verso la fine di maggio ne vennero ussiti altri 30.000. Furono eliminati anche 12.000 “domobranci” sloveni, gli effettivi di tre reggimenti “cetnici” serbi e montenegrini, 2.900 cosacchi del Colonnello Wagner, questi ultimi liquidati nei boschi di Lubiana”.

La stessa sorte fu riservata ai cosacchi ritiratisi dalla Carnia, arresisi agli inglesi in circa 40.000. Alcune centinaia si buttarono nel fiume Drava, affogando con le loro famiglie, gli altri furono consegnati – per ordine del Ministro britannico della Guerra Harold Mac Millan (divenuto nel 1957 primo ministro) – ai sovietici. Una fine orribile li attendeva, come da testimonianze sia del Generale tedesco Erinhard Gehlen, che dello scrittore dissidente russo Alexander  Solgenitzin, spettatore dei fatti da lui narrati nel suo capolavoro “Arcipelago Gulag”.

 “Per tutto il 1945 ed il 1946, una grossa fiumana di avversari, questa volta veri, del regime (i soldati di Vlasov, i cosacchi di Krasnov, i mussulmani dei reparti nazionali formati da Hitler), a volte convinti, a volte involontari, consegnati dagli alleati stessi in mano sovietica, fu completamente sterminata.

Insieme ad essi fu preso non meno di mezzo milione di persone fuggite dai sovietici, civili di ambo i sessi riparati “felicemente” in territori alleati e proditoriamente consegnati……. [soltanto nel 1973sul “Sunday Oklahoman” del 21 gennaio apparve un articolo di Julian Epstein – al quale oso esprimere la gratitudine a nome di tanti caduti e dei pochi sopravvissuti -. Egli ha pubblicato un documento breve ed incompleto, parte dei molti volumi di verbali fino ad ora tenuti segreti sul rimpatrio forzato nell’Unione Sovietica. Dopo essere vissuti due anni presso i britannici, con un fallace senso di sicurezza, i russi furono colti di sorpresa e non capirono neppure se sarebbero stati risparmiati. Erano per lo più semplici contadini con amaro risentimento personale verso i bolsevichi. Le autorità britanniche li trattarono invece come “criminali di guerra” e li consegnarono – contrariamente alle loro volontà – a coloro da cui c’era da attendersi esclusivamente la morte”.

Così come fu vano il tentativo del Generale Scott, comandante della 38° Divisione irlandese, di salvare 35.000  cosacchi provenienti dalla Croazia. Prevalse la volontà di Yalta e i cosacchi furono consegnati ai loro carnefici !

 “Si salvò (sembra) una divisione ucraina, quella del generale Pawle Shandruk, circa 10.000 uomini, in quanto il Generale in parola, riuscì abilmente a far passare le sue truppe per polacchi della Galizia ! Il 4 giugno 1945, a seguito delle proteste sollevatesi negli Stati Uniti, il Generale inglese Alexander ordinò ai suoi soldati di cessare ogni consegna di militari e di fuggiaschi agli jugoslavi. Purtroppo era troppo tardi !

Tralasciando affermazioni faziose, le vittime croate, liquidate in massa per mano comunista ascendono da 150.000 a 200.000 trucidati.

A questi bisogna aggiungere i 12.000 sloveni di Rupnik, nonché migliaia di “cetnici”, di tedeschi, di cosacchi e Wolkdeutsches austriaci, l’immane sterminio era avvenuto alla fine della guerra e, nonostante ciò, non apparve tra i capitoli del grande processo di Norimberga, che durò fino all’ottobre del 1946”.

*  *  *

Lo scalpiccio dei piedi, le risatine e le chiacchiere nei corridori del bordello, mi tengono desto anche dopo la mezzanotte ed io penso, cerco di trarre delle conclusioni: quanto potremo durare ancora prima che ci acciuffino ?

Bisogna sentirsi alitare la muta ringhiosa al collo per comprendere come noi si viva. Quando ci toccherà ? E’ una specie di gioco crudele, come quello dei bastoncini cinesi, da togliere uno alla volta, delicatamente.

Sono rassegnato: mi conforta il pensiero che non sono stato causa involontaria di morte per i miei soldati ed è una soddisfazione grande visto che la guerra ha distrutto milioni di vite umane. Ho perduto tanti amici, ma neppure un subordinato e di questo posso giustamente menarne vanto, perché altri colleghi, Niny compreso, non possono dire altrettanto. Un’analisi spassionata. Quando la dannata guerra era al culmine, non mi posi domande se fosse giusta o sbagliata; aveva uno scopo nei progetti dei capi e nessuno osò impedirla, così come nessuno dei tantissimi morti sapeva di dover morire.

A ben rifletterci, potrei morire anch’io da un momento all’altro, benché sembra un assurdo, visto che è tornata la pace. Ma non qui. Questo è un mondo particolare che si è estraniato dal resto dell’umanità, un mondo di odi, di vendette postume, di orrore.

Ricordo che, allorché mi recai a Fiume, nel carcere di Via Roma per riabbracciare mio fratello posto in libertà dai nazisti dopo l’eccidio del marzo, sul muro scrostato della cella dov’era rinchiuso, lessi – incisi con una punta – questi versi: “I raggi senza forza del sole autunnale illuminano i passi di un condannato a morte che cammina a capo chino”. Allora sembravano un arcano, ma oggi capisco il loro significato, anche se sono costretto tra quattro mura e mi pare perfino di vivere la scena.

Un corridoio trasudante umidità, lo spioncino…. Le grosse sbarre alle finestre, dalle quali filtra poca luce, la fredda atmosfera, angosciante e credo di poter provare le medesime sensazioni dell’uomo che scrisse, nel ricordare quei versi mi sono reso conto che i miei sentimenti stanno sullo stesso piano e, benché abbia scartato l’idea di consegnarmi ai miei persecutori, non è detto che potrò evitarlo.

Questa città somiglia ad un’enorme coppa in cui vengono miscelati i destini di ciascuno di noi; svuotandosi resteremo bene in vista, in balia di chi ci vuole. Ma perché tormentarsi ? Dopotutto con la morte cessa soltanto l’esistenza individuale, viene distrutto il corpo in quanto entità materiale, ma ciò significa che ha termine la storia dell’umanità ? Che cos’è, dopotutto, la nostra vita ? Che cos’è la guerra se non uno scambio di vite e di morti ? La ragione della sua sventurata tragicità sta tutta in queste parole. Se almeno la mia morte servisse a qualcosa !

Dice il poeta: “I ciottoli gettati, le tante vite disperse, diventano una parte delle nuove fondamenta….”.

Di sicuro c’è che la notte è eterna e cede il posto ai ripensamenti. E mi domando, adesso, fino a qual punto mi sia lecito affidare a queste pagine i più intimi sentimenti.

12 Maggio 1945 – Pranzo del tutto degno d’un uccellino nella solita trattoria e questo perché, ahimè, il gruzzolo si assottiglia e perché la bionda che serve ai tavoli, secondo me, teme di non avere sufficienti…. Stoviglie da farci rigovernare !!

oggi ho venduto gli stivali per duemila lire e chi li ha presi, un calzolaio, senza guardarmi in faccia, mi ha fatto capire che avevo trovato un buon acquirente, “uno che si fa i fatti propri”. A buon intenditore…..

Chiamo il conto che assomma a 300 lire, ma, con mia meraviglia, mi vedo restituire dalla ragazza 350 lire con un: “Non s’offenda: lo faccio per mio fratello, marò della X a Torino. Mia madre ed io preghiamo perché, sulla strada del ritorno, trovi un’anima caritatevole !“. Prima il calzolaio, poi la cameriera, allora siamo proprio etichettati.  E non basta. Stamani mi sono imbattuto nel mio giovane dirimpettaio di Grohoceva Ulica, a Sussak. Era vestito da marinaio titino. Mi ha stretto la mano, si è informato sui miei genitori, ha salutato ed è andato via. Qui bisogna trovare una via di scampo al più presto. Se non ci sbrighiamo, finiremo in una delle foibe di cui sempre più spesso si parla. Ma da dove passare ? Se almeno avessi scelto la carriera del marinaio, mi impadronirei d’una barca e via…. Ad Arbe, quando Edy Dezelijn mi esortava ad imparare a condurre il suo “schooner”, rispondevo che non mi interessava affatto e ora, chissà quanto mi gioverebbe. E più passano i giorni, più sento parlare di “prelievi”, di “ex” finiti al Coroneo (carcere).

Così come, dai giornali, s’apprendono notizie raccapriccianti sulle uccisioni in Italia settentrionale. Che fine avranno fatto i miei ? Sfogliando “il lavoratore”di oggi:

“Atti di implacabile giustizia popolare registrati in Piemonte e in Lombardia e nel resto delle regioni liberate. Spaventose teste mozze son tornate a circolare per le vie delle città del nord, infisse su picche, a guida dei cortei, e quei giustizieri, quali che essi siano, sono stati educati – e sono alunni – da un regime che aveva riportato il Cristo e l’insegnamento religioso nelle aule scolastiche”.

E la conferma di ciò che sta accadendo è proprio sulla prima pagina che mostra la sconvolgente scena di Piazzale Loreto a Milano. Qui in Venezia Giulia, intelligentemente, i titini – a differenza dei partigiani comunisti italiani – non amano essere tramandati ai posteri per i loro misfatti e non ci sono (almeno non si vedono) foto a documentare episodi tipo carnaio milanese.

È talmente vero che per i misfatti consumati dalle orde slave abbiamo qualche riscontro solo per località in mano agli alleati, nulla per esempio su fiume e l’Istria e quanto è stato scritto è tratto da deposizioni di parenti e amici. Nella maggioranza dei casi, costoro si limiteranno a denunziare la “la scomparsa”del congiunto con la seguente motivazione: “Arrestato, prelevato, catturato”. Mai che qualcuno abbia dichiarato apertamente: “Arrestato e ucciso, prelevato e ucciso, catturato e ucciso…”.

E chi ha proceduto all’arresto, alla deportazione e all’eliminazione cura l’anonimato e raramente ammette che: “E’ deceduto in seguito a malattia contratta in prigionia”. Se vuole esagerare, allargando sconsolatamente le braccia: “E’ stato abbattuto mentre tentava la fuga”, oppure, sfruttando un motivo che va: “Assassinato dai fascisti cruzàri, delinquenti che si annidano nella giovane democrazia jugoslava, mascalzoni che ne vogliono infangare il nome di fronte al mondo…..”. (I cruzari erano combattenti clandestini fascisti).

E’ assai penoso ripercorrere mnemonicamente quel periodo, ma sono testimone del mio tempo e non posso tacere.

E le mie ricordanze sarebbero inutili se non le portassi a conoscenza di tutti, visto che chi doveva – certamente in malafede – non l’ha fatto.

Lasciata fortunosamente Trieste, non essendo più spettatore, mi avvarrò del lavoro d’altri, che meglio hanno approfondito l’argomento ed inizierò da Fiume, città a me particolarmente cara.

Seguiranno l’Istria e la stessa Trieste.

Assai mi rammarico di non avere argomenti su Gorizia che subì sofferenze pari, se non maggiori, delle consorelle giuliane.

*  *  *

O FIUME, TU SEI LA PIÙ FORTE…….”

La carrellata si apre con Fiume.

Sottolineo subito che nella “mattanza” non fece differenza alcuna essere fascisti o anti. Il numero dei soppressi in quel radioso maggio, tra gli avversari del vecchio regime non fu minore di quello dei “camerati” . Come avvenuto in precedenza a Zara, lo slavo, puntigliosamente, scelse le proprie vittime tra la classe medio–alta borghese (industriali e professionisti), non curandosi affatto dei precedenti politici così come ebbe scarsissima rilevanza il sesso.

Devo riconoscere – anche se c’è del macabro in ciò che dico – che i titini furono degli antesignani sulla parità dei diritti tra uomo e donna. Il numero di queste ultime, rapportato al numero degli scannati uomini, è eccezionalmente alto. Ancora una precisazione: l’età. È davvero interessante notare che non aveva importanza alcuna essere decrepiti o in fasce. Così, accanto a Marisa Peteani di Moschiena, che contava soltanto un anno, (furono uccisi anche il fratellino Franco di tre anni, la madre Antonietta e la zia Maria Slatcovich) va ricordata la novantaduenne signora Premuda, ammazzata a Grobnico con i due figli (rei di fare il pane per i militari italiani, erano i soli fornai del paese). E quando, in un clima infuocato (1948), ad un’interpellanza dell’Onorevole Spampanato, che chiedeva di conoscere qual’era il reale numero degli uccisi dagli slavi nei territori ceduti alla Jugoslavia, qualcuno disse trattarsi almeno di ventimila, i Ministri – Scelba degli Interni e Martino per gli Esteri – risposero che una tale cifra “non si poteva minimamente prendere in considerazione in quanto fornita dalle famiglie e non dalle Autorità della Federativa”.  (A comprova della riluttanza a fornire chiarimenti e della malafede di quei governi, in particolare per quanto riguarda la strage di centinaia e centinaia di militari del Regio Esercito dopo l’armistizio in Venezia Giulia, esiste una pubblicazione del S.I.M. (Servizio Informazione Militare) che nel 1946, per ordine dell’allora Ministro degli Esteri Carlo Sforza, venne fatta sparire per non incrinare i rapporti con lo stato confinante, stato che 1918 lo stesso Sforza aveva tenuto a battesimo, creato per:” porre un freno alle pretese italiane, dal francese Clemenceau : “Fiume… c’est la lune….!”), [ e con l’appoggio fattivo dell’americano Wilson]

Mi dilungo e chiedo venia.

Nella sola provincia del Carnaro – e nelle sue isole: Arbe, Veglia e Cherso – L.Barbali afferma, in un suo articolo – La difesa dell’Italia oltre Trieste -, si ebbero più di 3.000 assassinati dopo maggio 1945. Il Centro Studi Adriatici ha invano tentato di mettere insieme un elenco delle persone scomparse ma ha dovuto rinunciarvi sia per l’ostilità degli jugoslavi sia per la diaspora dei profughi, non solo rifugiatisi in Italia, ma in Australia, Canada e altrove. Qualcosa  s’è  appreso  grazie  alla  tenace  opera  di  alcuni coraggiosi cronisti, pochissimo  apprezzati  nella  loro fatica, se non, addirittura, osteggiati. Uno è il dottor Amleto Ballarini.

Traggo dal suo libro: “L’Olocausta sconosciuta”:

 Mattino del 3 maggio 1945

“Verso le dieci calò giù dalla collina un lungo corteo di uomini e muli che si snodò con passo incerto, senza richiami e senza comandi, tra case che non si aprivano per vie che non si popolavano. Non un canto da bocche imberbi che stringevano tra le mani armi spianate contro il vuoto di una città sconosciuta. Fogge diverse, ancora umide di boschi percorsi per interminabili giorni. Qua e là il grigio-verde delle nostre divise. I fantasmi si persero il grido di benvenuto e una bandiera incolore si ammosciò sull’asta come un fazzoletto bagnato di lacrime. Sui muri delle case avevano scritto in fretta, con vernice vermiglia, traditi dalla materna fonetica slava che non vuole doppie: <VIVA L’ARMATA ROSA> e quell’armata che appariva così grigia, più che rosa, non comprese l’errore e non colse il saluto (….ma lo diede quello del rinnegato Oscar Turilli, romano, un carrista italiano comandante della 1° Brigata corazzata della IV Armata jugoslava, che non si peritò di <recare quello dei combattenti italiani>). Si compì così la nostra “liberazione” e maturò nello squallore di quell’incontro la premonizione del nostro “terrore” e della nostra “passione”.

Il gregge, avvilito e torvo della truppa multicolore, si ammassò nelle caserme vuote, occupando gli alloggiamenti abbandonati; presidiò gli edifici pubblici in cui la vita della città s’era arrestata perché non v’era attorno alcun potere, se non quello del ferro e del fuoco, sparsi a piene mani dovunque, da tutti, senza pietà, per una guerra ormai definitivamente e tragicamente perduta………

Nella terribile notte tra il 3 e il 4 maggio, mentre le truppe regolari di Tito assaporavano, forse, il primo sonno dopo la vittoria, una feccia chiamata OZNA, senz’anima e senza Dio, comandata da un certo Piskulic, abbatté le porte delle case indifese ed ebbe dai potenti licenza di uccidere. Per tre giorni continuò la mattanza, tre giorni e tre notti. A Campo di Marte, a Cosala, a Tersatto, lungo le banchine del porto, in Piazza Oberdan, in Viale Italia i cadaveri si ammucchiarono e non ebbero sepoltura. Nelle carceri cittadine e negli stanzoni della vecchia Questura, nelle scuole di Piazza Cambieri, centinaia di imprigionati attendevano di conoscere la propria sorte senza che qualcuno si preoccupasse di coprire le urla degli interrogati negli uffici di polizia adibiti a camere di tortura. Altre centinaia di uomini e donne, d’ogni ceto e d’ogni età, svanirono semplicemente nel nulla. Per sempre.

Furono i “desaparecidos” di Fiume, per i quali non si muoverà e non si commuoverà mai nessuno. Papi e Presidente verseranno le proprie lacrime solo per l’Argentina e per il Cile trentacinque anni dopo.

Agenti di P.S., Carabinieri e Guardia di Finanza rastrellati a decine, non ebbero scampo.

Vito Butti, maresciallo di finanza alla stazione di Borgomarina, sfuggì per caso alla prima retata. Saputo che al Campo di Marte stavano fucilando i suoi commilitoni, indossò l’uniforme d’ordinanza, abbracciò la mogli dicendole: “Devo andare con i miei figlioli” e si costituì, come se andasse ad una parata. Lo ammazzarono a Castua.

Professionisti, piccoli proprietari, dirigenti dei cantieri, della raffineria, del siluruficio, impiegati statali, commercianti, tutta la piccola borghesia fiumana, colpevole solo di buoni e vecchi sentimenti, né fascisti, né antifascisti, laboriosa, tranquilla e ordinata, fu perseguitata ferocemente, falcidiata per ignobili rancori, banditesche ruberie, scatenate frustrazioni di plebe filoslava e contadina e di teppa ebbra di vino e di rivolta comunarda.

Radoslav Baucer era di razza croata, ma aveva avuto il torto di essere Direttore amministrativo all’Ospedale Civile. Gli vuotarono la cassa (3.000.000 di lire !) e lo annegarono in mare.  Operai, artigiani, portuali, non poterono sottrarsi nemmeno loro alla furia della “rivoluzione proletaria” che a Fiume colpì alla cieca, nel mucchio inerme della città dolente, per diffondere il terrore, tappare le bocche e piegare la volontà, umiliare l’orgoglio, offendere la dignità degli uomini, in modo che ognuno potesse avvertire paura nella sua stessa casa, panico nella famiglia, diffidenza nelle amicizie e, infine, disperazione, solitudine, impotenza in quella terra natia abbandonata a se stessa e alla barbarie.

Adolfo Corradi era un brav’uomo, un modesto del Palazzo Adria. Due poliziotti lo prelevarono da casa e lo portarono al Cimitero di Cosala, gli diedero una pala e lo costrinsero a scavarsi la fossa. Sarebbe stata un’esecuzione sbrigativa, come tante altre, se quel brav’uomo non avesse avuto la stoffa e il sangue dell’eroe. Prima di morire usò la pala per spaccare la testa ad uno dei suoi carcerieri, ma l’altro lo fermò per sempre con una scarica di mitra a bruciapelo. Cercarono gli ex legionari dannunziani, gli irredentisti della prima Guerra Mondiale, i decorati e gli ufficiali, gli ex combattenti. Non occorreva essere stata importanti; bastava essere ancora coerenti alla propria irriducibile fedeltà alla Patria.

Adolfo Landriani faceva il custode al giardinetto di Piazza Dante. Era venuto a Fiume con gli Arditi di D’Annunzio e per la sua piccola statura lo chiamavano “maresciallino”. Non so se fu grande in vita, so solo che il suo coraggio fu misurato nell’ora della morte. Lo chiusero in una cella e gli saltarono addosso in quattro o cinque, imponendogli di gridare con loro: “Viva la Jugoslavia”. Lui pure così piccino, si drizzò in piedi, sollevò la testa in quel mucchio di belve e urlò con quanto fiato aveva in corpo: “VIVA L’ITALIA !”, finché non fu sollevato come un bambolotto di pezza e scagliato contro il soffitto, più volte, con selvaggia violenza e lui, ogni volta, con voce sempre più fioca: “VIVA L’ITALIA”.

Poi il grido divenne un bisbiglio, la bocca si colmò di sangue e gli si chiuse per sempre”.

L’eliminazione fisica dei fascisti fu accurata e tenace. Non ebbero rifugio nemmeno a Trieste, perché squadre speciali riuscirono a sorprenderli anche là, nella più assoluta indifferenza degli anglo-americani, per riportarli a Fiume e poi dare loro la morte in mille modi diversi.

Molti – credendo d’avere la coscienza tranquilla e ritenendo di meritarsi il rispetto del nemico per aver combattuto ed operato con onestà e onore – si lasciarono serenamente prendere, sperando in un trattamento secondo giustizia, ma la pietà, insieme alla giustizia, era morta.

“Cosa volete che mi facciano” – rispondeva quietamente il Direttore Didattico Giuseppe Tosi, mazziniano, alle sue allieve e insegnanti, Mara Serdòc e Aurelia Bressan, che lo sollecitavano a mettersi in salvo “in Italia” – “ho sempre agito con correttezza, fo fatto il mio dovere di educatore; ero maestro sotto l’Austria, lo sono stato sotto l’Italia e potrò continuare ad esserlo sotto la Jugoslavia, ma non lascerò mai la mia terra…”.

Fu martirizzato e annegato in mare a Velosca, davanti alla sua casa.

“Nel generale bagno di sangue che sconvolse l’Europa, a guerra finita, i partigiani slavi non si comportarono diversamente dai loro “compagni italiani”. Uccidere i fascisti non fu reato e, con essi, le famiglie, gli amici, a volte perfino il cane o il gatto….

Non sapremo mai l’esatto numero di quanti caddero a Fiume. Gli assassini non parlarono e i familiari non poterono supplicare nessuno, neppure dopo l’esodo, per avere la certezza d’una morte presunta, per sperare di ottenere il diritto a portare un fiore su un pezzo di terra senza croce e senza nome. La Patria non ebbe per loro nulla da dire, nulla da dare, oltre alle leggi speciali e all’odio folle di turbe imbestialite.

Riccardo Gigante (di nome e di fatto !) aveva contribuito – prima e dopo D’Annunzio – a fare la Storia della sua città, non solo quale politico che lo vide impegnato come irredentista, legionario, senatore del Regno e, alla fine, Commissario straordinario della R.S.I., ma anche quale uomo di cultura, piacevole scrittore, forbito poeta dialettale, profondo conoscitore della lingua, delle lettere e dei costumi della sua gente. Fece solo del bene e su questo concordano tutti, sempre, prima e dopo la sua fine, fascisti e antifascisti.

Nella tragica notte del 4 maggio si fece trovare in casa, con la sua famiglia. Qualcuno lo vide al mattino risalire Via Trieste a piedi scalzi, le mani legate col fil di ferro, gli abiti a brandelli (testimonianza resa da Ferruccio Derecin, proprietario a Fiume della tipografia “Sasso bianco”).  Era alla testa di una colonna di infelici, spintonato come Cristo per l’erta del Golgota, verso una passione che non potremo mai sapere, verso una fine che non ci faranno mai conoscere.

Qualcuno dirà poi d’aver visto il suo corpo martoriato penzolare da un gancio da macellaio a Castua. Dubito che sia vero, ma era nella tradizione slava.

Il buio calò a Fiume profondo. La Patria lontana chiuse gli occhi per non vedere, per non sentire.

Piegata da mille ferite inferte da una sconfitta che, nell’inutile massacro d’aprile, vestiva la maschera tragica della vittoria, non avvertì quel flebile lamento d’un suo piccolo lembo di carne colpita da una risorta barbarie…………

I fiumani veri resistettero da soli fino all’esodo, pressoché totale e lo faranno con grande coraggio, inventandosi la protesta ogni giorno, dovunque e comunque.

In questa autentica lotta di popolo, non pochi cadranno per fuggire clandestinamente, per rivendicare i diritti d’Italia, per ribellarsi alle elezioni – truffa, al lavoro coatto, ai processi – farsa, alla fame, per aver cospirato, per aver osato gridare il proprio dissenso, per aver combattuto (e accadde) con le armi in pugno. Vanno ricordati: Gastone Riosa, fucilato a Tersatto per “reato di organizzazione di banda che si occupava dell’espatrio clandestino degli italiani”, ai quali – questo lo slavo non l’ha detto – era stata respinta la domanda d’opzione; Rivari Vladimiro, ucciso il 30 giugno 1948 per aver tentato di varcare il confine; Riboni Mario, Superina Giovanni, Cressevich Antonio, Stifanich Carlo, disperso in mare per aver tentato di raggiungere la sponda italiana su una piccola barca nel maggio del 1952.

A parte quelli usciti dalla città prima della “liberazione”, quasi diecimila furono i fiumani, tra il 1946 e il ’46, che, con innumerevoli espedienti, scapparono dalla città – galera, lasciandosi spogliare e derubava se serviva a raggiungere l’Italia.

Nel 1947 se ne andarono altri seimila e, successivamente, più di diecimila si videro respingere la domanda d’opzione con la scusa che i loro “ascendenti” erano indiscutibilmente slavi (alla faccia dei propri sentimenti !).

Di questi ultimi, novemila persero ogni speranza e parecchi ricorsero all’espatrio clandestino rischiando la vita, che le guardie di frontiera, i famigerati “graniciari” avevano ricevuto l’ordine di sparare a vista per “uccidere”.

Qualcuno morì semplicemente per aver ammainato in Piazza Dante la bandiera bianco – rosso e blu issativi il 4 maggio 1945.

Il 16 ottobre 1945, un ragazzo, Giuseppe Liborio, in una dolce giornata domenicale, diede, in cambio di niente, i suoi diciotto anni pur di togliere il simbolo d’una conquista infame. Preso immediatamente, fu trovato ucciso, l’indomani, a rivoltellate tra le rovine del Molo Stocco.

L’Italia non avrà per lui medaglie alla memoria.

Forse le darà fastidio che qualcuno, anziché tradire, morisse per lei ! (A.Ballarini, “L’Olocausta sconosciuta”).

Secondo dati incontrovertibili, perché forniti dal nostro Ministero degli Interni, i fiumani riparati in Italia, erano nel 1950 – e cioè dopo l’opzione del 1947 – oltre 60.000.

Dei censiti nel 1941 (cioè 61.000 abitanti nella sola Fiume, alla data del 3 marzo 1946 ne erano esodati 35.000.

*  *  *

I S T R I A    –    S E C O N D O    M A R T I R I O……

 

Della tragedia degli istriani esistono precisi riscontri perché – come Zara – i misfatti dei partigiani comunisti avvennero alla presenza di osservatori assolutamente imparziali e non confutabili: gli inglesi.

Sebbene la politica di Albione, in quel periodo, appoggiava l’alleati balcanico, molti “osservatori” di S.M. non ebbero stomaco tale da poter avallare i crimini della teppa jugoslava, prova ne sia che lo stesso comandante in capo, Maresciallo Harold Alexander, il 12 giugno 1945, inviò al Presidente degli Stati Uniti, Truman, una vibrata protesta per denunziare il comportamento delle bande slave in Venezia Giulia.

“L’operato di Tito e della sua sanguinaria cricca è peggiore di quella di Hitler “ I miei soldati si chiedono, sbigottiti, se sono complici e docili strumenti nelle mani di feroci assassini…..” .

“…..a guagliò, chist’ ssò peggio d’e’ ttedeschi….”.

La città di Pola venne occupata dagli inglesi il 18 giugno 1945 in forza degli accordi stipulati a Belgrado il 9 dello stesso mese. Sin dal 12 vi si era insediato un battaglione di fanteria, che, tuttavia, era accasermato attorno al porto militare, esattamente nel triangolo posto tra la penisola Stoia, il forte Musil e la fabbrica Cementi. 18 giugno !…. ma cos’era avvenuto in trentanove giorni d’occupazione titina ? Lo slavo – come per Fiume, Zara, Trieste – si era scatenato uccidendo e deportando migliaia di cittadini. Frammenti di corpi umani furono - dopo l’arrivo degli inglesi - (vedi il libro: “Dalle Foibe all’esodo” di Marco Pirina, pag. 163/164) ritrovati a Lissano. I resti cioè di un gruppo di soldati italiani e tedeschi ammassato, legato e fatto saltare in aria con la dinamite !

A Pola – e generalmente nelle cittadine rivierasche, notoriamente abitate da italiani di antico ceppo veneto – furono oltre 4.000 gli uccisi. Le foibe, attivate dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, vennero “riattivate” per ingoiare altri infelici, colpevoli di nulla se non di dichiararsi italiani. Ecco un mini elenco.

A Groppada ne vennero infoibati 34; a Visignana 8; 200 a Villa Orizi; 100 a Cernovizza; altrettanti nelle miniere di bauxite di Cettua, centinaia a Pisino, Umago, Villa Checchi, Levade, Vallelunga…..

Centosessantun derelitti tra uomini e donne, le mani strette dietro la schiena col famigerato fil di ferro, vengono caricati a Fasana sulla nave cisterna “Lina Campanella”. La barca urta contro una mina ed affonda nel canale dell’Arsa.

Benché i prigionieri non avessero alcun scampo (perché avvinti bestialmente con le classiche “manette” jugoslave), vengono mitragliati dalle guardie rosse che seguivano su di un battello ! A Orsera sedici giovani, che si rifiutavano di rispondere alla chiamata alle armi nell’esercito di Tito, sono abbattuti a raffiche di mitra. Nel Forte Musil – dove erano stato concentrati – 300 prigionieri tra soldati e civili vengono trucidati a colpi d’ascia.

Dopo l’arrivo degli inglesi, non potendo infierire più contro i polesani, 64 altri connazionali sono “annegati” nella acque di Albona.

Si è toccato, precedentemente, il problema dei deportati.

A Buccari ne furono concentrati 250 e per costoro abbiamo la testimonianza dell’agente di custodia Ambrogio Mannoni, affidabilissimo teste in quanto dichiaratosi filo-comunista.

“Dichiaro qual è stato il trattamento riservato dai partigiani di Tito a 250 deportati da Pola a Buccari. Durante la mia prigionia, iniziata il 1° giugno 1945 e terminata l’11 luglio, ho sofferto pene indicibili.

In questo periodo ho provato i momenti più terribili e più disperati della mia vita nel vedermi trattare in quel modo, dopo aver collaborato con i partigiani jugoslavi. Il giorno 11 giugno, fummo tratti fuori dalle carceri e legati con il fil di ferro e, dopo un viaggio per mare durato diciotto ore, fummo rinchiusi nelle carceri di Buccari.

Il trattamento fu addirittura bestiale. Il vitto insufficiente, senz’acqua, nella sporcizia, ammalati, senza un medico, senza medicine. Incominciarono a trattare i prigionieri coi mezzi più barbari. Venivano torturati, pestati a pugni e con le fruste e poi messi scalzi con i piedi sopra dei legni appuntiti e dovevano stare ritti sulla posizione di attenti e fissare il muro a testa alta, guardare sempre il medesimo punto. Fra le dita dei piedi – tra un dito e l’altro – venivano infilati dei pezzi di ferro e, con un congegno, venivano poi stretti sino a provocare le urla del torturato.

Questi poveri disgraziati rimanevano anche tre giorni nella stessa posizione, senza mangiare, e non facevano che urlare, urlare, urlare…..

I loro piedi si gonfiavano, le punte acuminate dei legni si conficcavano nelle piante, che sanguinavano continuamente. Quando cascavano per terra, venivano raddrizzati a colpi di calcio di moschetto.

Forse, qualcuno crederà che questi ad essere torturati erano dei criminali, oppure dei fascisti (fascista = criminale), ma non era vero.

Fra le diverse persone torturate, ricordo un capitano di amministrazione. Tutti sapevano che non aveva mai fatto del male a nessuno, che non era combattente (arma combattente = criminale). Dopo averlo spogliato d’ogni cosa, si accorsero che aveva in bocca due denti d’oro. Un commissario politico per levarglieli, gli inferse un fortissimo colpo sulla guancia col calcio della pistola e, nonostante, le urla di dolore, freddamente gli cacciò le dita in bocca per cavarne i denti.

Il poveretto, la mascella fracassata, cadde a terra gridando, supplicando di ucciderlo anziché farlo ancora soffrire….. Queste cose le ho viste personalmente durante la mia prigionia e non crediate che abbia esagerato, anzi mi sono molto limitato”.

C’è un’altra dichiarazione testimoniale – su episodi del genere sopradescritti – sottoscritta dai dottori Nicolò Caluzzi e Franco Stocco, datata 5 settembre 1945.

“La notte del 10 giugno, dopo che la Radio dava per imminente l’entrata delle truppe anglo-americane a Pola, e dopo aver firmato l’accordo di Belgrado (con il quale la jugoslava si impegnava a riportare nei luoghi di origine i detenuti politici – art. 6 del Trattato Morgan), in un’orribile scena dantesca, vengono legati ad altri prigionieri politici e detenuti comuni, che in qualcuno lascerà segni indelebili, e vengono deportati per destinazione ignota. Uno di loro è febbricitante, appena operato di appendicite acuta, con la ferita aperta e con la cannula di drenaggio nel ventre.

Rimangono legati per ben 18 ore, dalle 23.00 alle 17.00 del giorno dopo. Per due giorni sono lasciati senza cibo, quindi con 100/150 grammi di cattivo pane e due volte un po’ di farina e di crusca cotta nell’acqua senza sale e senza condimento, che costituiscono il vitto giornaliero.

Dormono sul nudo pavimento, senza coperte né biancheria di ricambio e torturati, tormentati dagli insetti, dalla scabbia e da conseguenti affezioni cutanee. Tra di loro vi sono anziani tra i 60 e i 70 anni. Per quindici giorni nulla si sa della loro sorte; dal giorno del loro arresto nessuno dei familiari li ha più visti per circa tre mesi. Il trattamento nella prigione di Buccari è stato bestiale sotto ogni aspetto. Le torture ai detenuti sono state più raffinate di quelle asiatiche”.

Giuseppe Nider, poeta istriano, ha avuto rilasciata questa testimonianza da un profugo (che rifiutava di farsi riconoscere perché aveva parenti ancora “dall’altra parte”).

“Le carceri rigurgitavano di arrestati, in maggioranza italiani e qualche slavo dell’Istria che sentiva italianamente. Gli interrogatori avvenivano di notte con i sistemi di Torquemada. Si passava, cioè, dall’introduzione di sigarette accese nel naso – e successivamente spruzzo di acqua bollente nelle narici – a tagliuzzamenti, a colpi di baionetta sulle nocche delle dita. Si avvolgeva una catena intorno alla testa (vedi garrota spagnola) che, poi, con manici di manzoniana memoria, veniva stretta finché sprizzava il sangue e “l’imputato” non confessava quello che “non aveva commesso”. Poi c’era la “bicicletta”, che consisteva in due pezzi di legno di circa 40 cm l’uno, a spigolo, sui quali a piedi nudi – digiuno, guardato a vista da un armato veniva posto l’interrogando. Ho visto una ragazza resistere 48 ore senza mettere i piedi a terra e poi svenire. Un secchio d’acqua sul viso e fu trascinata via per i piedi”.

Trascinata per i piedi….. cioè morta.  In quanti soccombettero, non resistendo alle torture ?  Qui di seguito, un saggio di Luigi Papo, patriota istriano. Ci descrive il martirio e la morte del giovane montonese Italo Belletti.

“5 maggio 1945. Una plebe ubriaca d’odio e assetata di sangue si raccolse davanti al Duomo. Italo Belletti, uno tra i più eroici difensori di Montona, universitario, instancabile animatore e valoroso combattente, fu tratto dalle carceri. Il bel viso era irriconoscibile. Da sei giorni sopportava la tortura. Il volto devastato dalle botte, quasi cieco, poche ore prima di essere condotto al supplizio, era riuscito a commuovere un carceriere e a parlare con un’amica. Aveva dettato il suo testamento spirituale.

<Morirò, ma ti prego, quando verrà il plebiscito per la nostra Istria, metti anche la mia scheda nell’urna e scrivici sopra, a chiare lettere, ITALIA….”>.

Legato, fu spinto dalle guardie tra la marmaglia sconcia e dall’alto una voce gridava: “La vostra condanna ?….”  e la plebe rispondeva: “A morte !”.

deriso, sputacchiato, picchiato a sangue, come Cristo sulla Via Dolorosa, mantenne sempre la testa alta. Guardava, ormai, l’Iddio che l’avrebbe raccolto. Sorrise sino all’ultimo. Una donna gravida chiese d’esserne il boja. Una raffica di mitra stroncò la giovane vita ai piedi del colle che lo aveva visto nascere. Aveva solo vent’anni”.

(credo che perfino G.P. Pansa, perfino lui, non se la sentirà di includere questo martire nel novero dei “mercenari” della RSI).

E quando 28.058 polesani, cioè l’80 per cento della popolazione di Pola, dichiararono per iscritto che avrebbero abbandonato la città se fosse stata consegnata agli slavi, sulla spiaggia di Vergarello, il 18 agosto 1946, scoppiarono una trentina di grosse mine marine, lì accumulate, che uccidono e straziano 120 innocenti, tra i quali moltissimi bambini. Il Tribunale alleato accerterà che “l’esplosione non poté essere accidentale.”.

*   *   *

Appresi i termini del “diktat”, i polesani preferirono affrontare il durissimo esilio, piuttosto che subire il regime jugoslavo. Il vecchio piroscafo “Toscana”, ne trasporterà (con le povere masserizie) a Trieste, Ancona, Venezia e Brindisi, oltre trentamila.

L’ultimo viaggio fu compiuto il 20 marzo 1947 e trasportò a Venezia la salma del martire Nazario Sauro. Risposta migliore alla stampa comunista che scriveva di “quadri della reazione”, gli istriani non potevano dare.

Evidentemente, nessuno di loro si attendeva niente dal “Popolo che si era messo all’avanguardia della civiltà”, come per Zara (e centocinquanta anni prima per Spalato, Sebenico, Traù, Cattaro, Ragusa e centinaia di altri borghi di Dalmazia), la parola d’ordine, indimenticabile per ciò che li legava a San Marco, era sempre quella:

…..TI CON NU – NU CON TI…… (Giuramento di Perasto)


 
T R I E S T E,    UNA   PRIMAVERA   DA   DIMENTICARE 

Il dramma vissuto dalla città alabardata, meriterebbe un capitolo ben più nutrito e non, poche, scarne pagine.

Gli è che l’argomento “Trieste” è stato vagliato e trattato da numerosi saggisti e storici, non manovrati dai soliti circoli nostalgici o filo-slavi. Mi riferisco ai Tomizza, ai Pacor, Cergoly, Cialente e il riferimento è d’obbligo perché nessuno, più dei suaccennati, ha tanto cercato di imbrogliare le carte in tavola, al fine di dimostrare che i torti erano esclusivamente da una sola parte: da quella italiana – nazionalista e revanscista – esasperatamente sciovinista.

E a proposito di sciovinismo torna alla mente ciò che scrisse molti decenni orsono (il fascismo era ancora di la da venire e Trieste non era ancora italiana), l’EDINOST, un giornale sloveno, in data 7 gennaio 1911:

“NON ABBANDONEREMO LA NOSTRA LOTTA FINO A QUANDO NON AVREMO SOTTO I PIEDI, RIDOTTA IN POLVERE, L’ITALIANITA’ DI TRIESTE. FINORA, LA NOSTRA LOTTA ERA PER L’UGUAGLIANZA, DOMANI DIREMO CHE LA NOSTRA LOTTA E’ PER IL DOMINIO. GLI ITALIANI NE PRENDANO NOTA, NON CESSEREMO FINCHE’ NON COMANDEREMO NOI. L’ITALIANITA’ DI TRIESTE, CHE SI TROVA AGLI SGOCCIOLI, FESTEGGIA LA SUA ULTIMA ORGIA PRIMA DELLA MORTE. NOI SLOVENI INVITEREMO QUESTI VOTATI ALLA MORTE A RECITARE IL <CONFITEOR>”….

….. Con buona pace del quartetto sviolinatore summenzionato, nonché degli altri numerosi girella nostrani, quelli per intenderci del “Volemose bene” a senso unico.

La molla che mi spinse a risfogliare il “Diario”, si chiama Antonio Pitamitz, cronista di “Storia Illustrata”, ed i suoi articoli pubblicati rispettivamente nel maggio e nel giugno del 1985. io speravo che i miei connazionali – così pronti a commuoversi per la sorte di cileni e palestinesi – facessero altrettanto per quella dei loro confratelli giuliani.

Mi sbagliavo.

Allora mi sono impegnato prima per me, secondo per quelli che non hanno dimenticato, come la Venezia Giulia – a differenza dell’Alto Adige, abitato nella stragrande maggioranza dai tedeschi – era latina, veneziana e italiana da oltre dieci secoli !

Ripeto: mi sbagliavo e non me ne adonto affatto, giacché ero più che sicuro d’andare incontro ad una cocente delusione. Caso mai, serenamente, ne prenderò atto.

“Fu alla fine del luglio 1945 che gli inglesi scoprirono la foiba di Basovizza e incominciarono ad estrarre i cadaveri. Un rapporto, riguardante questa foiba, dà particolari orribili.

In esso si descrive come i partigiani jugoslavi procedevano al massacro delle vittime. Queste venivano spogliate e torturate, poi gettate nella voragine spesso ancora vivi; sull’orlo della fossa furono trovati pezzi di orecchi, di nasi ed altre parti del corpo. Martoriati prima di essere uccisi. Gli alleati estrassero da questa foiba, mediante una benna, ben 450 metri cubi di resti umani. Altre foibe, innumerevoli, furono scoperte col loro raccapricciante contenuto di esseri umani tormentati o semplicemente uccisi nell’alto Carso. Un elenco spaventosamente lungo e abbastanza preciso, se non completo, si trova nel mio volume: <Il problema di Trieste>, da cui sono state tratte queste note”. (D. De Castro, op. cit.).

……….Altre foibe, innumerevoli ……… Delle foibe istriane ho fornito un elenco “approssimativo”, allorché le menzionai sul 1° volume della trilogia (“Il Diavolo di Cartesio”), cioè quelle post-armistizio dell’8 settembre 1943, dalle quali furono allora estratte 350 salme.

Quelle che seguono – e dalle quali sono stati riesumati 464 cadaveri – furono “esplorate” dalla Polizia Civile della Venezia Giulia, “dopo” il maggio 1945.

È necessario ricordare che detta Polizia poteva operare soltanto nelle località soggette all’A.M.G.O.T., cioè controllate dagli alleati. Dio solo sa quante altre foibe ci sono – stracolme – nella Federativa !

“Pozzo di Sesana, Fosso Monte Tamar, Enus di Balancetto, Fossa Ponte di Ferro, Abisso di Pipenca, Pozzo di Gropada, Ugovizza, Grotta San Lorenzo, Colubrida, Grotta di Tarnovizza, Abisso di Proposto, Fossa di Sant’Antonio di Moccò, Abisso Plutone (Basovizza), Abisso di Padriciano, Grotta di Volci, Jelenca jama, Caverna Prijana, Jama Oslinca, Maciah Lusa, Prazna Jama, Abisso di Prosecco, Jama Korsiska, Grotta del Cane (Monrupino), Fossa in Prato, Foiba inesplorata”.

Foibe, morti.

Se ne discetta come d’operazioni commerciali (ed io mi scopro un “gelido” contabile di Thànathos).

La perfetta propaganda messa in atto nella vicina repubblica – nell’intento di scagionarsi dall’accusa infamante d’aver sterminato gli italiani – denunzia “un gruppo di malfattori dal dubbio passato”, addossando loro la colpa delle stragi e del terrorismo scatenato tra il 2 ed il 24 maggio 1945 a Trieste (con l’entusiastica adesione dei comunisti nostrani, Togliatti in testa, e dell’indiscusso capo della fazione giuliana, Vittorio Vidali, la cui fama era già tristemente nota sin dalla mattanza spagnola).

Dunque, secondo la stampa jugoslava “questa banda agiva autonomamente, sfuggendo alle alla severa sorveglianza del “Komando Mesta” della IV Armata, e si rese – unica e sola – colpevole di arresti arbitrari, sevizie, uccisioni ed esecuzioni sommarie. Agiva al di fuori della legge e giunse al punto di lasciare impuniti e indenni molti dirigenti fascisti (la lingua batte) e molti collaborazionisti”.

Così scrive un autorevole “columnist” dell’osservatorio del C.N.L. il 15 giugno 1945.

 Ma io sono a conoscenza di ben altro: le torture e gli interrogatori dei malcapitati, caduti in mano ai “compagni” avvenivano in una Villa di proprietà della famiglia Segrè, alla periferia di Trieste e acquistò una tristissima fama allorquando vi si insediò – su precise direttive delle autorità d’occupazione, senza le quali nulla era possibile – la “Squadra Volante”, composta da individui che si autonominarono, sempre col beneplacito jugoslavo “guardie del Popolo”.

“Ma costoro (è sempre il sunnominato “osservatorio” a parlare) nulla avevano da spartire con gli arresti ordinati dal Komando Mesta…”.  È interessante notare che C.N.L.  vuol dire Comitato Nazionale di Liberazione, che non ha niente e che fare con il C.L.N. quello, per intenderci, sgominato dai titini immediatamente dopo essersi insediati in Prefettura il 2 maggio 1945.

Vediamo, da alcune testimonianze, come agiva la “Squadra Volante”:

Professor Quarantotto, di Orsera:

“La villa Segrè Sartorio, in Via dell’Università, era la sede del Commissariato del 2° Settore della <Guardia del Popolo>. Quelli che venivano arrestati erano portati in questa villa e là venivano picchiati a sangue; molti di essi venivano fucilati o caricati in camion per essere portati in foiba. In una sola sera furono caricate 30 persone”.

Biagio Marin, poeta di Grado, antifascista:

“Inaudite violenze furono usate contro uomini e donne. La professoressa Elena Pozzoli, collaboratrice del C.L.N. fu torturata e non fece più ritorno. Un’altra donna, di famiglia antifascista, durante la detenzione fu costretta a pulire con stracci – che erano i resti di una bandiera italiana -. Va rilevato, però, che la violenza si doveva alle “Guardie del Popolo” e non a reparti regolari militari”.

(La precisazione è di Ennio Macerati).

“Gli arresti a Villa Segrè venivano eseguiti da un gruppo di individui autonominatisi “Guardie del Popolo”, fra cui figuravano Ottorino Zell, Giovanni Steffè, Edoardo Musina, e Teodoro Cumar, che si erano installati nella sede dell’ex Distretto Militare di Via Castello e avevano preso possesso delle Carceri dei Gesuiti. Dopo qualche giorno, l’intera squadra si trasferiva a Villa Segrè, assumendo il nome di Squadra Volante, sotto il comando dello Zell. Lo stato maggiore, installatosi al primo piano della villa, era composto dallo stesso Zell, da Musina, Cumar e dallo Steffè, il quale ultimo passava alle dirette dipendenze del Commissario del Popolo “Gino”, alias Nerino Gobbo. La squadra si dedicava a perquisizioni di abitazioni, sequestro di merci e arresti di numerose persone che venivano rinchiuse nelle Carceri dei Gesuiti.

Come risulta dalle deposizioni dei testi, tutti i detenuti venivano bastonati e seviziati, taluni costretti a bastonarsi a vicenda e, perfino, a mettere la testa nel secchio delle feci. Due giorni dopo questi fatti (una esecuzione sommaria avvenuta il 24 maggio 1945), i componenti della Squadra Volante furono arrestati per ordine delle autorità d’occupazione jugoslava e il giorno 7 giugno, con due autocarri, trasportati a Lubiana. Durante il tragitto, lo Zell, il Cumar, lo Steffè e il Mazzoni (?), tentarono di fuggire, ma i due ultimi furono uccisi, mentre lo Zell e il Cumar riuscivano a dileguarsi, tornando, però, qualche tempo dopo a Trieste, dove lo Zell veniva arrestato ed eliminato durante un altro tentativo di fuga”.

(De Castro, op. cit.)

(per la cronaca è bene ricordare che il 12 giugno la città fu presa in consegna dall’A.M.G., Governo Militare Alleato, e l’Ufficio Giudiziario ignora completamente di avere mai ordinato l’uccisione di qualcuno, fuggiasco o meno).

Sulla frenetica attività di improvvisati tribunali del popolo, vale la pena citare le sentenze pronunziate dalla Corte D’Assise di Trieste, col relativo fascicolo penale (16.01.1948) contro tali Besedniak, Sosic e altri, tutti sloveni, accusati di omicidio continuato. I primi due furono condannati all’ergastolo e gli altri a pene varianti da 5 a 10 anni di reclusione.

La Corte d’Appello di Trieste emise una “sentenza in data 20.07.1947 (e relativo fascicolo penale) contro gli imputati Pertot, Ferluga e altri per l’omicidio per futili, abietti, motivi, della giovane Dora Ciok dopo prolungate sevizie”. 

Li cito, in quanto, nel primo e nel secondo caso, gli imputati ebbero l’ardire di dichiararsi: “Combattenti per la libertà in reparti slavi”.

Del resto, la ferocia titina non si estrinsecò soltanto contro gli italiani; ne fecero l’amara esperienza anche gli anglo-americani. Nella foiba Plutone (Basovizza), assieme ai 1.500 soldati tedeschi e italiani, furono trovati i resti di 23 militari neo-zelandesi. E, ancora. Sulla provinciale Gorizia – Trieste, le “jeep” alleate vennero spesso assalite e gli equipaggi bestialmente massacrati.

In due mesi – per inconfutabile documentazione americana – i titini commisero 49 omicidi e 51 atti terroristici. La maggior parte dei delitti fu addebitata alla “Guardia popolare jugoslava” (Norodna Zabita), di stanza a Pirano.  Tuttavia, di fronte agli eccidi perpetrati sui “fratelli”, cioè altri slavi, quanto sopra denunziato è ben misera cosa. Un ventaglio dell’orrore, mirabilmente descrittoci da un cronista rigoroso qual è il professor P. Quarantotti – Gambini:

“… A Lussino, ce lo hanno raccontato i lussignani di Trieste, i titini, appena insidiatisi dopo aver sconfitto uno striminzito distaccamento cetnico che aveva occupato l’isola prima di loro, raggrupparono tutti i serbi superstiti, li fecero montare su un natante, li portarono al largo: lì li denudarono e cominciò, sistematica, la macellazione. Sotto gli occhi di chi attendeva il proprio turno, le membra dei compagni squartati venivano gettati via via in acqua. Quel lavoro durò ore; a sera, al ritorno del natante vuoto, il mare era rosso…..

Ascoltate quanto ho saputo ieri. Una “drugarica”, che è venuta a farsi la permanente, mi diceva: “Ho sulla schiena questi tre anni di guerra, come gli uomini, e ho fatto  la pelle dura, ma certe cose mi sconvolgono ancora”. E raccontava: “Quassù sull’altipiano, dov’era con un suo reparto, i titini trascinarono una sera un gruppo di prigionieri. Ebbene, prima di infoibarli, li mutilavano delle dita che poi arrostivano sanguinolenti sulla brace, per costringerli, infine, a masticarle e ad ingoiarle. Così ogni prigioniero, prima di essere ucciso, mangiava le proprie mani….

A Scandaiscina, prima dell’infoibamento, ai condannati venivano strappati gli occhi, affinché, si diceva loro: “Non avessero a spaventarsi precipitando nell’abisso….”

E mi rammento di un’altra slava che raccontava: “Io non posso più tornare a casa. Mai più, finché vive mia madre, potrò tornarvi. E neanche dopo. Mia madre non può perdonarmi e impreca e sputa per terra ogni volta che sente fare il mio nome, perché io ho condannato mia sorella che aveva fatto all’amore con un italiano e i paesani, anche le donne, prima le hanno tagliato i seni e le natiche, strappate le ovaie, entrando dentro col coltello e poi, quando non pareva neanche più viva, le hanno schiacciato la testa con un masso. E c’erano tante, fra le ragazze e le sposate che le gridavano: “Puttana, puttana….” che avevano fatto, esse all’amore con gli italiani e con i tedeschi, e due avevano in braccio le loro creature…. Così è morta mia sorella: macellata. E anch’io l’ho condannata a morte. E adesso mia madre va dicendo che morirebbe due volte straziata peggio di sua figlia, piuttosto che rivedermi….”

“Racconto questo episodio, e uno dei presenti mi rispose: “fossero così rari ! E invece, nessuno saprà mai quanti ce ne sono stati.  A X, per esempio, (e questo l’ho saputo da uno che veniva di là), dopo l’otto settembre i titini hanno sorpreso un nostro soldato con una ragazza del luogo.

Ebbene, li hanno spogliati e portati entrambi nudi in paese e lei non so quanti maschi l’hanno posseduta a turno sotto gli occhi atterriti dei fratelli, due ragazzetti e una bambina, che obbligarono ad assistere, e poi – imprecando all’Italia – l’hanno costretta ad ingoiare i testicoli che avevano reciso al soldato….” .

*   *   *

Trieste, 2.600 deportati = 2.600 trucidati.

E, nonostante, ciò i comunisti trattano l’argomento con oscena disinvoltura, quale prassi ordinaria dell’armata di “liberazione” jugoslava, che: “agì nel più assoluto rigore della legge”, così scrive Mario Pacor, una tra le più quotate penne del titoismo nostrano (in quanto vive in Italia essendo cittadino italiano). Ancora una perla, colta tra le tante:

“La politica jugoslava a Trieste durante i 40 giorni, fu assai corretta e civile. Modesto e senza jattanza fu il comportamento dei soldati dell’esercito di Tito, ben diverso da quello che ebbe una parte dei soldati inglesi e americani (questo è il colmo della sfrontatezza) . in una sola occasione furono – loro malgrado – coinvolti in un’azione repressiva, quando il 5 maggio 1945, una pattuglia si sentì circondata da una folla ostile e sparò. Si dovettero lamentare cinque morti e alcuni feriti. Se dolorosi, deplorevoli eccessi vi furono, vanno attribuiti ad elementi criminali che si erano infiltrati tra i nostri partigiani. Accadde, così – come era già avvenuto per le foibe nel 1943 e per le malghe di Porzus – che alla vera giustizia popolare, alla rappresaglia o alla misura preventiva, si aggiunsero imperdonabili errori. Perirono, purtroppo, anche parecchi innocenti e militanti del movimento di liberazione italiano”. (M. Pacor, op. cit.).

 

Superfluo ogni commento. Il nostro amabile pennivendolo è uno sfacciato bugiardo, perché sapeva bene che la carneficina era già messa in conto, come sapeva del perché dovesse essere eliminato “fisicamente” l’intero staff del C.V.L e del C.L.N. triestino.

Sylvia Sprigge, la giornalista americana da me più volte citata quale attenta osservatrice, assolutamente imparziale, in un articolo inviato al suo giornale, scriveva testualmente :

“Viene classificato fascista chiunque osi manifestare idee differenti circa l’appartenenza di Trieste alla Jugoslavia”.

Altra angosciosa pagina – della quale, com’era prevedibile, non esistono precisi riscontri e dati – è quella relativa ai “deportati” in Jugoslavia dopo la “liberazione”.

Il numero si fa ascendere a circa diecimila, ma in tale cifra non sono compresi gli ex militari italiani, dai 20 ai 30mila, catturati dai titini, mentre rientravano in Patria dai lager nazisti d’Austria e Germania.

“E’ quasi impossibile sapere se un arrestato si trovi tuttora qui a Trieste o se gia già stato condotto altrove, le mani avvinte col fil di ferro dietro la schiena, in quelle colonne di deportati (o di morituri), che attraversano ogni notte la città. In questi giorni, le carceri, svuotate dai partenti (si saprà più nulla di loro ?), sono riempite dei nuovi arrestati, rigurgitano sempre. I registri d’incarcerazione non sono neppure tenuti o, saltuariamente, vengono aggiornati alla meno peggio, con mille confusioni, sicché, spesso, non si sa nemmeno chi uno sia e perché sia stato condotto lì. La scarcerazione, la deportazione o la morte, saranno per molti del tutto casuale….”.

(P.A. Quarantotti – Gambini; op. cit.).

Dopo la “liberazione” furono riattivati in Jugoslavia diversi campi di concentramento già adoperati dagli ustasci o, frettolosamente (per la particolare occasione), creati dai titini. Prima essi non ne avevano, in quanto assai raramente i partigiani facevano prigionieri.

Orribili erano le sofferenze di coloro che venivano rinchiusi e di essi fanno fede i rapporti della C.R.I. (Croce Rossa Italiana) e delle autorità militari del nostro paese, ricavati da deposizioni o denunzie degli ex internati.

Fucilazioni alla presenza di tutti, da servire quale monito, pene capitali inflitte col capestro, punizioni dolorosissime (cito, il “palo”, la “bicicletta”, il “triangolo”, la “fossa”), torture che riducevano il disgraziato che vi veniva sottoposto pronto per il manicomio !

Qui, di seguito, alcuni campi di “ detenzione” (sottile eufemismo per non dire di “sterminio” !):

Borovnica, Cerquinizza, Selce, Karlovac, Garika, San Vito di Lubiana, Giurgitza, Vitrovka, Buccari, Portorè.

Altri ne sorsero in prossimità di Belgrado e di Zagabria, ma nulla si conosce a tale proposito perché chi vi fu concentrato, difficilmente ne uscì vivo.

*   *   *

 

 

L ’ E N N E S I M O    M I R A C O L O

 

13 Maggio 1945 – Una notizia fantastica ! La “mano” soccorritrice che ci nutre gratuitamente (e che io ho soprannominato Matelda), ha trovato la maniera di farci uscire da Trieste.

Per via terra è impossibile, essendo la linea del nuovo confine, lungo il fiume Isonzo, invalicabile. Adesso hanno messo, perfino, degli sbarramenti anticarro e i due ponti, a Pieris e a Gradisca, sono costantemente vigilate da “scolte” armate.

Non c’è che una strada, ma bisogna fare presto: il mare !

Il golfo è affollato da navi alleate e il traffico non può essere interrotto dalle motovedette jugoslave senza creare un “casus belli”. Il Golfo !!

L’ho sempre detto ! Un braccio di mare di appena 17 miglia ci separa da Grado.

Ebbene un pescatore muggisano, esperto, si presterebbe per denaro a traghettarci nottetempo sull’isola dirimpettaia  e, per i soldi, “Matelda” ci ha detto di non preoccuparci: ce lo darà lei, un prestito. Oh, sorella nella sventura, di tutto cuore mi auguro che presto tu possa riabbracciare tuo fratello !

14 Maggio 1945 – Siamo macerati dai dubbi, e Fazio ha già espresso un chiaro parere negativo: lui teme di mettersi nelle mani di un Caronte traditore, capace di portarci all’inferno, altro che in Paradiso !  E anche Niny mi sembra riluttante. Dice che Grado è un’isola e che, quindi, bisognerà guadagnare la terra ferma percorrendo un pontile stretto, lungo tre chilometri e, certamente, ci sarà qualcuno a sorvegliarlo. Perché questo pescatore non ci sbarca direttamente a Punta Sdobba ?

Teme, comunque, che si stia per commettere una grossa castroneria, che ci si cacci in bocca al lupo con le nostre stesse gambe !

In mattinata – condottovi inconsciamente per abitudine – mi sono recato in Via Murat ed ho sbirciato, non visto, l’appartamento dei Mulè. Mi proponevo di avvicinare Ottavio per metterlo a parte del nostro tentativo di fuga, per averne un consiglio. Caso mai dovesse capitarci qualcosa, perché i miei, almeno sappiano.

Poi, mi sono allontanato. Se ci dovessero “prendere”, nessuno saprà mai quando, come e dove siamo finiti. Eppure, chissà perché, sono pervaso da una grande serenità di spirito.

È così, in ultima analisi non devo farmi perdonare nulla.

In diciotto mesi di militanza mai che abbia ammazzato personalmente qualcuno o che abbia contribuito a nuocergli. Nel limite delle mie invero scarse possibilità ho fatto soltanto del bene.

Dove sarà il “partigiano” Braveri ? E le due derelitte fuggiasche della Todt ?  E l’afflitta consorte dell’ingegner Pace ?  Mi è debitore, persino, quell’Ive Ambrosich, la cui vita era nelle mie mani, benché egli volesse annullare la mia !

15 Maggio 1945 – Martedì, ed è una calda, assolata giornata, e solo ora mi rendo conto di non aver reso sufficiente giustizia al tempo in questo obbrobrioso periodo, limitandomi a definirlo, lugubremente: “clima mortale”.

Cero l’atmosfera non è delle più sopportabili e incertissimo si prospetta il nostro futuro (non parliamo poi dell’esistenza che siamo costretti a condurre, fatta di rassegnazione, di abito stazzonato, di proibizione d’un bagno caldo, d’un pasto accettabile….). Ma, stamane c’è il sole, un sole radioso ed io mi sento incredibilmente euforico. Con Niny – Fazio ci ha lasciati – andiamo a “far spese”  al mercato di Ponte Rosso.

Nella capace borsa di tela, regalatici da una di “quelle” Signorine, dobbiamo riporre il necessario per sostentarci, per affrontare la fuga, qualcosa da mettere sotto i denti. Si è stabilito con “Matelda” di recarci dal pescatore, prima del coprifuoco, alla darsena della Pilatura.

La barca del muggisano è attraccata a Marina Muia. Se tutto andrà per il suo verso, in un paio d’ore al massimo toccheremo la sponda italiana.

Italia, come se qui non lo fosse più.

Proclama del Generale Dusan Kvder. Comandante jugoslavo della piazza militare di Trieste:

“TRIESTE E’ STATA LIBERATA DALL’OCCUPATORE TEDESCO ED E’ INTENTO NOSTRO DI UNIRLA, ASSIEME A POLA E FIUME, ALLO STATO JUGOSLAVO”

Mezzogiorno. Sant’Antonio Taumaturgo. La piazza è insolitamente affollata e, questo, sebbene le poche bancarelle abbiano da offrire le solite, misere cose. Ma è una folla strana, fatta di individui con barbe incolte, divise sbrindellate, che si esprime in vernacoli diversi, ma non in triestino.

Sono centinaia di ex reduci dai campi di concentramento, giunti dall’Austria con una autocolonna della P.O.A. (pontificia Opera d’Assistenza) e la bandiera gialla e bianca del Vaticano è fissata sui cofani e lungo le fiancate dei camion che stazionano in Via Rossigni. Un paio di poliziotti militari inglesi affiancano un monsignore che si sbraccia invitando i reduci a salire sugli automezzi. Una rapida occhiata d’intesa ed io e Niny montiamo su un camion, benché, ahimè, si sia gli unici vestiti in borghese.

Cerchiamo di farci piccini, di non farci notare ed ecco l’ennesimo miracolo ! 

Un paio di soldati, di ex prigionieri, senza pronunziare parola, si sfilano le sdrucite giubbe e ce le porgono.

I motori sono imballati e la scorta inglese si avvia alla testa della colonna.

Si scivola lungo la costiera cara all’Arciduca Massimiliano d’Asburgo e a me sembra un sogno !

E mi chiedo, incredulo, se è proprio vero, se ci stiamo lasciando dietro, dopo Trieste, Santa Croce, Sistiana, Duino e poi Monfalcone – imbrattata da slogan inneggianti a Tito – e Ronchi e Pieris.

Sul lungo ponte – mitra minacciosamente imbracciato – una decina di miliziani ci osserva, gli occhi come fessure, torvamente, ma la sola presenza dei berretti rossi di Sua Maestà Britannica è sufficiente a rimetterli ubbidientemente in riga.

 

*   *   *

Parafrasando un recente film, la domanda sorge spontanea:

“Riusciranno i governanti di questa minchionesca nazione a tenere a freno l’insaziabile appetito del nostro vicino orientale ?”

Non ne sono molto sicuro, perché, si sa, l’appetito vien mangiando e già (come l’On. Gherbez ci fa graziosamente sapere) si avvertono le prime avvisaglie: “Vogliamo l’università slovena…. Gli sloveni come gli altoatesini….Dateci la nostra autonomia….. Aumentate gli scambi commerciali e culturali …..(magari sovvenzionando i giornali slavi che sputtanano l’Italia)… Aprite i cordoni della borsa…..Creiamo, come stabilito, il pool industriale dell’alto Carso….

Non è forse, come dice più d’un entusiasta, la frontiera con la Jugoslavia la più aperta del mondo ??

Con l’ossequio servile che sempre ci ha contraddistinto nel mondo (Osimo insegna), offriremo la nostra terra a chiunque vorrà appropriarsene.

   E’ solo questione di tempo.

Fregio della 2° compagnia Arditi del 3° reggimento MDT

All'inizio


 

 

 

IL COMANDANTE

 

T. Col. Giuseppe Porcù, comandante del 3° Regg.M.D.T. (Milizia Difesa Territoriale) di Fiume. Estromesso dalla carica nel febbraio 1945 per la sua decisa avversione ai tedeschi, fu arrestato a Trieste dagli agenti slavi dell'O.Z.N.A. il 5 maggio 1945.
Il 20 dello stesso mese fu prelevato dal carcere del Coroneo e condotto in località sconosciuta, presumibilmente in Jugoslavia. Si ignora dove e quando sia stato ucciso.

 

 

 

 

 

 

All'inizio


61a Legione CC.NN. "Carnaro"

Di stanza a Fiume, il reparto fu impegnato in Croazia sino alla data dell'armistizio. Nei circa 30 mesi passati nella ex Jugoslavia, ebbe numerosi scontri e molte perdite, di cui la più cruenta nelGorski Kotar (a est di Fiume), dove, il 1° gennaio 1942 (Homolianskj Klanac Brod), la 61a Legione (e precisamente il 2° Battaglione) perse in un'imboscata 35 uomini. Dopo l'8 settembre 1943 rientrò, combattendo, a Fiume e formò il raggruppamento "Gambara" per la difesa della città assieme a reparti di cavalleria (Cavalleggeri di Saluzzo), Carabinieri, GG.FF. e volontari giovanissimi finché non arrivarono i tedeschi della Div. "Prinz Eugen". Nel febbraio 1944 la 61a Legione CC.NN. divenne il 3° reggimento per la Difesa Territoriale agli ordini del maggiore dei Bersaglieri Giuseppe Porcù, defenestrato dai nazisti nel febbraio dell'anno successivo.

La grafica mostra il labaro, la bandiera con il leone di San Marco e quella con le tra teste pardine della Dalmazia, il mare Adriatico con l'Istria e le isole di Cherso, Lussino, Veglia e Arbe, nonché la costa con il canale della Morlacca.

La M.D.T., compreso il 3° Reggimento, avrà nel litorale adriatico, dall'8 settembre '43 al 28 aprile '45, 270 morti e 305 feriti. Tra i morti del 3° lo stesso Col. Porcù ed i sottosegnati ufficiali: Ten. Aurelio Piesz, S.Ten. Bruno Carletti, S.Ten. Nicola Ferrara. (La ricerca storica è stata effettuata dal Legionario Torquato Dalcich)