“Il Gentile dei fascisti” secondo Alessandra Tarquini

di Alberto Figliuzzi


Valutazione e sintesi dell’interessante volume di Alessandra Tarquini, che documenta, contro molti e radicati luoghi comuni, il complesso e non facile rapporto di Giovanni Gentile con il Fascismo.


copertina Un diffuso e superficiale luogo comune, che non risparmia nemmeno gente dall’indubbio spessore culturale, identifica in Giovanni Gentile l’ideologo del fascismo, portando così a ritenere la filosofia dell’attualismo l’unica copiosa sorgente che ne avrebbe alimentato i molteplici aspetti politici, etici, giuridici. Una convinzione, questa, apparentemente ovvia, in quanto sembra adattarsi in maniera perfetta al carattere autoritario del regime, riconosciuto dai suoi amici non meno che dai suoi nemici, e tale da contribuire a evidenziarne una sorta di assetto monolitico non compatibile col pluralismo politico e culturale che contrassegnerebbe invece (nel bene o nel male, a seconda dei punti di vista) la democrazia.
Chi si addentra in un esame appena un poco attento della fisionomia sia politica che culturale del fascismo ben sa invece che ciò non è affatto vero, riuscendo a scorgere, al contrario, molteplici orientamenti, diverse anime di un fenomeno estremamente complesso, che non a caso, venuta meno l’unificante personalità di Mussolini, solo con grande difficoltà o in nessun modo sono riuscite a comporsi nelle varie esperienze “neofasciste” o “postfasciste” sino ai giorni nostri. Le interminabili discussioni tra “gentiliani” ed “evoliani”, ad esempio, o tra “corporativisti” e “socializzatori” sono ancora oggi ben vive persino nel ricordo di tanti che nei loro anni verdi erano usi alla militanza nelle piazze piuttosto che alla frequentazione di biblioteche.
Non scoprirebbe quindi niente di nuovo Alessandra Tarquini nel suo bel libro Il Gentile dei fascisti (pp. 381, Il Mulino, 2009) se il suo proposito fosse solo quello di evidenziare la varietà del dibattito politico-culturale al suo interno e quindi la poliedricità ideologica del fascismo, di cui pure offre una descrizione ricca e minuziosa, che non si sofferma soltanto sui protagonisti più importanti e più noti del mondo intellettuale del tempo, ma dà spazio anche alle voci “minori”, non certo in grado di competere per profondità speculativa col grande filosofo, ma comunque capaci, con vivacità e acume e per ben chiare ragioni di strategia politica, di contrastarne le tesi.
L’intento del volume, invece, molto bene espresso dal singolare ma indovinato titolo, è quello di indagare il complesso rapporto tra Gentile e il fascismo in un suo preciso e in precedenza non esplorato aspetto, ovvero “le varie reazioni, in termini di sostegno o di critica, che l’opera ed il pensiero gentiliano suscitarono nel mondo fascista, fra esponenti del partito e membri del governo, filosofi, storici e giuristi, giovani fascisti e docenti universitari”. Vengono così esposte le ragioni per cui “alcuni videro in Gentile il principale teorico del fascismo, lo difesero dalle critiche…e ne condivisero il progetto politico e culturale”, mentre “altri, che consideravano la sua influenza sulla cultura italiana un pericolo per il regime, lo avversarono strenuamente”. Lo studio della Tarquini non intende, cioè, avanzare una nuova interpretazione circa l’effettiva congruenza o meno, in termini puramente concettuali, tra il fascismo e la filosofia del Gentile, da aggiungere a quelle ormai classiche di Eugenio Garin o di Norberto Bobbio, di Augusto Del Noce o di Gennaro Sasso, volendo piuttosto ricostruire concretamente “i rapporti che il filosofo ebbe con il partito fascista, con il go-verno e con Mussolini”, con i suoi sostenitori e con i suoi avversari, raccontando in tal modo “il fascismo dei gentiliani e degli antigentiliani”.
Così, se da una parte la Tarquini si mette piuttosto nella prospettiva di un autore come Gabriele Turi al quale riconosce il merito di avere, già qualche anno addietro, nella sua biografia del filosofo, presentato Gentile anche come “un politico che agì sulla base di un rapporti di forza concreti e che costruì strategie per raggiungere i suoi obiettivi…”, nello stesso tempo si applica a correggere una visione a suo giudizio troppo statica della complessità di tale confronto, che tralascerebbe di mettere in luce come “i contrasti e gli accordi tra il filosofo e i fascisti derivino da concezioni del fascismo diverse e in lotta le une contro le altre”. Al contrario, la ricerca della studiosa già allieva di Renzo De Felice si sviluppa nella consapevolezza che “sia Gentile sia i fascisti sono soggetti che vivono contraddizioni, si differenziano tra loro e ingaggiano una battaglia quotidiana per conquistare l’egemonia”, per cui ciò che il suo libro vuole e sa mettere bene in luce è sia l’impegno messo dagli avversari del filosofo “nella costruzione di un regime diverso da quello da lui teorizzato”, sia la non meno convinta adesione al processo rivoluzionario mussoliniano da parte di Gentile e dei gentiliani, che proprio in virtù di ciò partecipavano al “dibattito intorno alle grandi questioni del totalitarismo fascista”. Se, insomma, quanto il regime e il filosofo misero in atto (in termini di dichiarazioni, provvedimenti legislativi, decisioni politiche, interventi sulla stampa, eccetera) secondo la Tarquini “basta per definire Gentile fascista”, non è invece sufficiente “per spiegare in che senso lo furono lui e i suoi avversari”.
Impostato in tale modo l’argomento, la precisa e coinvolgente trattazione prende le mosse dagli anni venti, quando il conflitto tra Gentile e molti autorevoli esponenti del partito fascista, che lo consideravano un rappresentante dell’Italia liberale, si manifestava in maniera molto decisa proprio in merito alla progettata riforma scolastica che il filosofo avrebbe poi attuato quale ministro della pubblica istruzione nel primo governo Mussolini. Con grande ricchezza di particolari viene perciò rappresentato il quadro che da una parte vedeva, fin dal 1919, le nette posizioni di studiosi gentiliani come Ernesto Codignola, Giuseppe Lombardo Radice, Armando Carlini (favorevoli alla coesistenza di scuola privata e scuola pubblica come pure all’esame di Stato) e dall’altra, per ragioni tattiche, la molto meno lineare politica scolastica fascista, comunque ferma nel sottolineare il carattere nazionale dell’educazione e una diffusa avversione agli istituti privati e alle scuole cattoliche. Contemporaneamente è ricostruito il difficile lavoro di penetrazione dei gentiliani all’interno del partito nazionale fascista col concorso di quanti, in seno ad esso, come Camillo Pellizzi, coglievano invece affinità d’intenti tra filosofia idealistica e rivoluzione mussoliniana, adoperandosi affinchè Giovanni Gentile fosse finalmente chiamato ad attuare il suo disegno di riforma della scuola. Una vittoria, questa, che, sebbene avversata da personaggi di prim’ordine, come lo stesso presidente della corporazione fascista della scuola Dante Dini, o dal filosofo del diritto Giorgio Del Vecchio, sembrò piena e irreversibile sino al 1924, trovando, la politica scolastica di Gentile, ampi consensi sui più autorevoli giornali e riviste dell’epoca, dai quali veniva accreditata come in perfetta sintonia col fascismo e ispiratrice di un’alta religione della patria.
E’ a questo punto che la Tarquini passa a descrivere in maniera particolareggiata l’offensiva sferrata in quello stesso anno e continuata sino alla fine degli anni venti da parte dei principali esponenti del “fascismo intransigente” quali Curzio Suckert, Ardengo Soffici, Mario Carli, Giuseppe Attilio Fanelli, Giuseppe Brunati, Telesio Interlandi, la cui costante contestazione delle iniziative e delle posizioni ideali del filosofo, sino al punto di metterne in discussione sia le convinzioni fasciste che la stessa presenza nel partito, riusciva a trovare largo seguito. Questa volta la più piena disapprovazione riguardava, in ordine di tempo, innanzitutto il modo in cui Gentile, allora presidente della Commissione incaricata di studiare un progetto di riforma dello statuto albertino, inseriva il fascismo in un processo che dal Risorgimento e Mazzini passava per l’esperienza della Destra storica. In seguito, dopo il rifiuto da parte dei vertici del partito della concezione corporativa di Gino Arias e dello stesso Gentile (che ammetteva il pluralismo delle organizzazioni sindacali), a favore di quella del “sindacalismo integrale” di Edmondo Rossoni (che tale pluralismo invece negava), ecco i nuovi attacchi alla riforma scolastica e quindi le modifiche ad essa apportate dal ministro Pietro Fedele, con la concomitante campagna antigentiliana su “L’Impero” degli ex futuristi Mario Carli ed Emilio Settimelli. Protagonisti, gli stessi, subito dopo, di una ben più drastica contestazione persino in occasione di quel convegno culturale di Bologna del 1925 che vide la presentazione, da parte di Gentile, del celebre “Manifesto degli intellettuali fascisti”, liquidato come “un saggio discretamente riuscito di manualetto di propaganda, di un filosofo da cattedra”, incapace di cogliere la natura del fascismo, visto come “fenomeno di temperamento e non indirizzo teorico”; un atteggiamento condiviso da altri gruppi organizzati intorno a diverse personalità del mondo politico fascista. E neanche la gestione gentiliana dell’ “Enciclopedia Italiana” fu libera da polemiche, non essendo condivisa (come ad esempio da parte di Interlandi) l’idea stessa della imparzialità della cultura e quindi la dichiarata apoliticità dell’opera, nonché, di conseguenza, la collaborazione di importanti nomi di firmatari del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, di cui invece Gentile si vantava non solo distinguendo tra politica e competenza, ma soprattutto in nome del carattere “nazionale” e autenticamente fascista dell’opera. Dal momento che il filosofo, come messo in chiara evidenza dalla Tarquini, ben teneva alla distinzione tra Fascismo, il cui carattere rivoluzionario andava visto nell’ “imporre una logica nazionale alla politica italiana” (capace di “far sentire tutti gli italiani, anche gli antifascisti, espressioni dello Stato guidato da Mussolini”) ed il partito fascista, espressione pur sempre di una parte, al quale quindi non andava delegata in maniera esclusiva la trasformazione radicale della società.
Naturalmente Gentile non avrebbe potuto resistere a quanti ne consideravano le idee e le iniziative più affini al liberalismo prefascista che all’autentico spirito del fascismo se non avesse potuto contare, oltre che sul personale apprezzamento di Mussolini, sul prezioso sostegno di altri influenti esponenti del partito, in particolare, fino al 1926, sulla sua “Critica fascista”, di Giuseppe Bottai, “il più importante esponente della corrente revisionista, che considerava il filosofo un maestro e un precursore del nuovo regime”. Le ragioni di un tale appoggio (per esempio in occasione del dibattito sulla natura del fascismo nella detta rivista) risultano chiare se si considera che il “revisionismo” di Bottai, affidando al fascismo il compito di una rivoluzione permanente in grado di superare le contraddizioni del liberalismo per un autentico “processo di trasformazione radicale delle culture, dei comportamenti e delle mentalità degli italiani”, non poteva accettare l’idea della politica come mera imposizione immediata, con la forza, di un nuovo ordine. Tutt’altro che secondaria era invece, per tale orien-tamento, la riflessione sull’ideologia del fascismo e sulla sua identità culturale rispetto all’azione più propriamente politica, al contrario di come pensavano gli “intransigenti”; e quindi anche la convinzione che agli intellettuali spettasse invece un ruolo di primo piano.
Sennonchè, a conferma del carattere tutt’altro che lineare, anzi complicatissimo, della vicenda dei rapporti tra Gentile ed il regime, ecco che dal 1926 il filosofo, come pure Bottai, insieme ai rispettivi collaboratori, forse per ragioni di strategia politica (si dice, per esempio, al fine di sollecitare una difesa della riforma scolastica da parte di Farinacci), prendono le distanze l’uno dall’altro; col risultato di un avvicinamento dei gentiliani (come Spirito e Codignola) agli “intransigenti” e di una meno marcata identificazione di fascismo e idealismo negli scritti ospitati da “Critica fascista”, a favore di una più neutrale collocazione rispetto ai vari orientamenti filosofici. Tutto questo mentre, per ragioni più strettamente filosofiche, bene inquadrate dalla Tarquini, Gentile era attaccato da Giuseppe Rensi e da Adriano Tilgher, in procinto l’uno di abbracciare posizioni antifasciste e l’altro, invece, di avvicinarsi al regime.
Un fondamentale capitolo del libro in esame è a questo punto quello dedicato alle posizioni di diversi esponenti del mondo cattolico, fascisti o comunque vicini al fascismo, tuttavia antigentiliani non solo in termini teorici ma anche, dalla seconda metà degli anni venti, con la concreta opposizione alle iniziative politiche del filosofo. La “Rivista di filosofia neoscolastica”, “La civiltà cattolica” ed altri importanti organi della variegata cultura cattolica si confrontavano, in effetti, già da lungo tempo, col neoidealismo, giudicato una filosofia profondamente atea e portatore di una sorta di religione dell’immanenza protesa ad attrarre i giovani e a fagocitare il cristianesimo (come sottolineavano per esempio Francesco Olgiati o Giuseppe Zamboni dell’università cattolica). Nell’impegno contro la modernità secolarizzata illuministica e contro il laicismo e a difesa dei “valori tradizionali” del cattolicesimo, in particolare era l’antigentilianesimo neoscolastico che si incontrava con quello espresso dai “fascisti intransigenti” già ricordati in precedenza, opponendosi al tentativo del neoidealismo di essere la teoria del regime. Se una tale opposizione non impedì tuttavia ai cattolici, fino al 1925, di appoggiare la gentiliana riforma scolastica (che garantiva libertà d’insegnamento e ampi spazi agli istituti privati oltre a riconoscere l’importante funzione della religione cattolica nella formazione infantile e persino nella costruzione della coscienza nazionale), in seguito i toni polemici divennero più pronunciati in concomitanza con l’orientamento antigentiliano di larghi ambienti del fascismo, pur con tutte le cautele possibili per evitare che il “revisionismo” (espresso dagli stessi ministri dell’Istruzione Pietro Fedele e poi Giuseppe Belluzzo) anziché giovare alla ulteriore valorizzazione della religione (come in effetti sarà, per esempio nei programmi scolastici) non andasse a toccare quanto giudicato positivamente, come l’esame di Stato. I decisi interventi di Gentile contro il tentativo dei cattolici di “prendersi tutto il braccio” della sua riforma scolastica che aveva loro “porto lealmente la mano” e contro lo stesso ministro Fedele che ne accoglieva le più significative richieste (come ad esempio l’introduzione di corsi facoltativi di religione in tutti gli istituti) si collocavano però in un contesto non certo favorevole, dal momento che i periodici fascisti, mentre evidenziavano la necessità di “fascistizzare” la scuola, lamentavano ormai unanimemente l’assenza di un orientamento politico unitario proprio nella riforma del 1923. D’altronde lo stesso Mussolini, accogliendo le richieste degli ambienti militari di ridurre i programmi scolastici degli studenti medi a vantaggio di un potenziamento dell’educazione fisica prendeva di fatto le distanze dall’idea gentiliana che la scuola, con una preparazione seria e selettiva, senza apporti esterni, fosse bastevole a sviluppare l’identità e la coscienza nazionale dei giovani; ritenendo al contrario indispensabile potenziare il rapporto tra scuola e società, e quindi tra scuola e regime, ampliando lo spazio dedicato all’educazione politica e alle attività extrascolastiche di tipo sportivo e turistico. Pur non significando ciò la sconfessione della riforma, che anzi il Gran Consiglio del 10 novembre 1927 giudicava “una delle migliori e più fondamentali leggi del regime”, tuttavia non si fermavano le iniziative che ne intaccavano lo spirito originario, come ad esempio l’introduzione nel 1928, da parte del nuovo ministro Belluzzo, del libro unico di testo per le scuole elementari (che ostacolava la libertà d’insegnamento). Tutto questo mentre si stavano per varare i Patti Lateranensi che certamente segnavano una seria sconfitta per Gentile, il quale aveva sempre avversato ogni ipotesi di conciliazione.
Ciononostante, la Tarquini non segue affatto l’interpretazione prevalente, avviata da Garin, secondo cui sarebbe stato proprio l’incontro politico tra il regime e la Chiesa (sulla base di un comune fondamento culturale reazionario e antimoderno) a determinare il progressivo declino di Gentile. In primo luogo, per la studiosa, la convinzione di molti, che il compromesso con un ente morale quale la Chiesa avrebbe sconfessato l’idea di stato etico e che quindi la cultura cattolica avrebbe assunto un ruolo centrale nell’ideologia fascista, era solo illusoria; tanto che già al VII congresso nazionale di filosofia, organizzato da Gentile, al quale partecipavano anche i neoscolastici dell’università cattolica, era lo stesso Mussolini, che, accettando di presiedere il comitato d’onore, rafforzava le posizioni del filosofo contro quelle di cattolici come Gustavo Bontadini o Agostino Gemelli. Ed ancora più esplicito era d’altronde il Duce quando, nel suo intervento alla Camera del 13 maggio del 1929 sulla Conciliazione, utilizzando una terminologia gentiliana, escludeva qualsivoglia forma di negazione del carattere morale dello Stato fascista. E che Gentile fosse tutt’altro che vinto lo dimostrerebbe il contemporaneo progetto, proprio al fine di frenare l’egemonia gentiliana, di un “Ente nazionale per l’Educazione morale e religiosa” per iniziativa di cattolici e fascisti antigentiliani come i filosofi Enrico Castelli e Bernardino Varisco, nonché con l’appoggio di Enrico Corradini, iniziativa la quale, però, vedrà la ferma opposizione di Mussolini, che non intendeva concedere terreno al mondo cattolico nell’abito della ideologia, della cultura e dell’educazione; ciò preludendo, tra l’altro, al duro contrasto tra l’Azione cattolica ed il regime nel 1931e alle proteste della S. Sede nel 1932 in occasione della pubblicazione della voce “Dottrina del Fascismo” redatta da Gentile per l’Enciclopedia Italiana. L’avversione nei confronti dell’idealismo, contestato nel suo preteso ruolo di elemento costitutivo del fascismo, continuò ad essere, del resto, negli anni trenta, sia pure con varie sfumature e con diversa intensità, l’obiettivo non solo di Agostino Gemelli e dei neoscolastici, ma di molti altri cattolici come i collaboratori delle riviste “Il frontespizio” (tra i quali il germanista Guido Manacorda e Giovanni Papini) e “Segni dei tempi”, pur proponendo, quest’ultima, una interpretazione, affine a quella gentiliana, che vedeva nel fasci-smo la continuazione ed il compimento del risorgimento, il cui nucleo però era individuato (per esempio da Umberto Lari) non nel liberalismo ma nel “pensiero religioso”; il che portava a considerare, in evidente contrasto con i gentiliani, i Patti Lateranensi e l’incontro tra fascismo e chiesa come necessaria continuazione del processo risorgimentale e persino come attuazione del “sogno neoguelfo” (Ernesto Bignami), non venendo ravvisato alcun contrasto tra i due enti morali, accomunati, anzi, pur nella loro distinzione, dalla riscoperta dei valori religiosi nella politica e nella cultura.
Ma c’era anche, nel mondo cattolico, chi, come i gesuiti di “Civiltà cattolica”, contrariamente alla ricordata posizione neoscolastica che dichiarava Gentile estraneo al fascismo, riconosceva al filosofo il ruolo di principale teorico della ideologia del regime, che veniva però convintamente criticata. Così, se Antonio Messineo si opponeva al totalitarismo negando, per esempio, che il concetto di nazione potesse annullarsi in quello dello stato o l’individuo ridursi alla sola dimensione politica, Angelo Brucculeri individuava “il peggiore di tutti i pericoli” nell’“autonomia morale dello stato”. Sfumate, caratterizzate da un tomismo più aperto alla cultura moderna di quello dei neoscolastici, le posizioni di “Studium”, i cui collaboratori, pur sottolineando la grande distanza tra idealismo e pensiero cristiano, commentarono negativamente la condanna del S. Uffizio, nel 1934, delle opere di Gentile e di Croce. Del resto, sottolineando essi la genesi cristiana del moderno mito del progresso (come F. Montanari), il rapporto con la modernità, con Gentile e con il fascismo non poteva che essere, in questi cattolici, profondamente ambiguo.
Un ulteriore, ampio capitolo la Tarquini lo dedica quindi ai “giovani antigentiliani”, mostrando preliminarmente (in accordo con l’idea espressa da Delio Cantimori nel 1940) l’impossibilità di usare in maniera univoca e condivisa i tradizionali termini di “destra” e “sinistra” (diversamente quindi da quanto fatto da Vincenzo Fani Ciotti già nel 1925 e in anni molto più recenti da Domenico Carella nel 1974 e ancora da Giuseppe Parlato nel 2000) per rappresentare le indubbie differenze all’interno del regime, tali però da “non mettere mai in discussione la comune appartenenza allo stato fascista, il comune aderire ai suoi valori, ai suoi miti, alle sue battaglie”. Una premessa necessaria per bene inquadrare le culture diverse (ma “unite dalla convinzione di rappresentare lo spirito della rivoluzione fascista” nonchè dall’antigentilianesimo) di quattro riviste (“Il Saggiatore”, “L’universale”, “Il Secolo fascista”, “La Sapienza”, poi tutte soppresse nella prima metà degli anni trenta non certo per il loro orienta-mento di destra o di sinistra, ma esclusivamente in quanto troppo critiche verso il regime). I giovani del “Saggiatore” (Domenico Carella, Giorgio Granata, Luigi De Crecchio, Nicola Perrotti e collaboratori), pur ritenendo l’attualismo di Gentile l’ultima grande filosofia occidentale, lo vedevano incapace di comprendere la complessità della vita e i problemi concreti degli uomini, avvicinandosi di conseguenza al pragmatismo e alla psicoanalisi. Accreditavano quindi come autenticamente rivoluzionaria non già la generazione prebellica e nemmeno quella dei fascisti della prima ora, segnate pur sempre da elementi di un’altra epoca storica, bensì solo quella ultima, pienamente permeata di mentalità fascista, intesa come realista, scientifica, pragmatista, antindividualistica, e ovviamente antidealista e antigentiliana. Anche “L’universale”, fondato da Berto Ricci e Romano Bilenchi, con collaboratori quali Camillo Pellizzi, Diano Brocchi e Indro Montanelli, intendeva dare voce all’avanguardia del fascismo, sviluppandone una idea caratterizzata dal primato dell’italianità, dalla modernità, dai tratti anticapitalisti, anticristiani ed anche antidealisti, espressi massimamente, questi ultimi, nel “manifesto realista” del 1933. E’del 1932, invece, la fondazione de “Il Secolo fascista” da parte del già ricordato giornalista monarchico e cattolico tradizionalista Giuseppe Attilio Fanelli, curatore con Mario Carli, l’anno prima, di una antologia di scrittori fascisti, seguita da aspre discussioni in quanto ignorava Gentile e i suoi collaboratori, e autore, l’anno dopo, di “Contra Gentiles. Mistificazioni dell’idealismo attuale nella rivoluzione fascista”. Fanelli e collaboratori, come Nino Guglielmi e Nino Serventi (che additavano l’opera di Gentile quale esempio di cultura di tipo illuminista e ne contestavano “l’idea che lo stato fascista potesse essere…uno stato in interiore homine, basato su di un presupposto individualistico”) attaccavano anche, nel 1933, l’Enciclopedia Treccani, il cui carattere era giudicato antifascista, ed analogamente erano viste come centri di antifascismo tutte le università italiane. Un’altra rivista, di breve vita ma molto battagliera, di giovani fascisti antigentiliani (quali Mario Figà Talamanca, Giorgio Prosperi, Vittorio Zincone), fondata da Gastone Silvano Spinetti nel 1933, fu “La Sapienza”, che, guardando al cattolicesimo tradizionalista contro la cultura moderna, attaccava l’idealismo, nel contempo innestando sull’antigentilianesimo una polemica generazionale che affidava ad una nuova classe dirigente il processo politico rivoluzionario e la fascistizzazione della società in termini anche culturali. Lo stesso Spinetti, mentre segnalava la divergenza tra la dottrina politica mussoliniana, caratterizzata dal realismo e dal riconoscimento del conflitto come elemento strutturale della realtà, e l’“individualismo idealista”, preparava quindi un riuscito “Convegno antidealista” a Roma. L’apprezzamento di Mussolini per la rivista, che procurò a Spinetti l’assunzione nell’ufficio stampa del Duce, non evitò che in molti ambienti essa fosse invece additata, proprio a causa del suo impegno antigentiliano, come luogo di disfattismo e di antifascismo.
Un altro scenario che la Tarquini dedica alla sempre più diffusa e decisa opposizione a Gentile è quello che vede protagonisti diversi esponenti di correnti di pensiero antidealistiche, dal realismo cattolico all’esistenzialismo. Illuminanti pagine sono quindi dedicate, per cominciare, a Francesco Orestano, presidente della società filosofica italiana, impegnato in polemiche teoretiche e personali di antica data col filosofo dell’attualismo e destinate a durare sino alla fine degli anni trenta. Sulla base di una proposta teorica (di dubbia originalità) in bilico tra neopositivismo, kantismo e realismo cattolico, egli, diversamente da Gentile, concepiva percorsi autonomi per la filosofia e la politica; ciò sembrandogli in linea col rifiuto da parte del fascismo (a cui pure attribuiva una dottrina avversa all’illuminismo, al liberalismo ed al materialismo storico e in sintonia invece con l’ideale religioso e cattolico) di una sua filosofia ufficiale. A seguire, viene esaminata l’accanita posizione antigentiliana del famoso filosofo del diritto Giorgio Del Vecchio (di formazione neokantiana e giusnaturalistica), nel contempo fervente e autorevole esponente, fin dalla prima ora, della cultura e del-la politica del fascismo, al quale i gentiliani (come A. Volpicelli) rimproveravano, da parte loro, la contraddizione tra il suo orientamento ed il suo fascismo intransigente, segnalando, cioè, che l’approccio individualistico del giusnaturalismo e la conseguente idea di Stato quale prodotto di un accordo razionale finalizzato alla tutela dei diritti naturali degli individui, non consentiva che la ragione politica potesse prevalere su quella giuridica. Passando quindi a Sergio Panunzio, teorico del “sindacalismo nazionale” (che delineava uno Stato quale espressione giuridica della molteplicità dei sindacati, in linea con una forma di liberalismo avente come liberi soggetti i gruppi sociali e non gli atomi individuali), la distanza era nettissima non solo da Gentile (per il quale al contrario nè la società, nè i diritti individuali o collettivi esistono prima o fuori dello Stato, di cui sono invece manifestazione), ma anche dai fautori del corpo-rativismo, fondato sull’idea che dovesse essere appunto lo Stato a decidere e dirigere i rapporti sia economici che politici. Un confronto teorico con importanti ricadute d’ordine pratico (come per esempio in merito alla questione del tipo di riconoscimento giuridico del sindacato, obbligatorio o meno) che coinvolgeva il giurista Carlo Costamagna, per tutti gli anni venti uno dei politici fascisti più vicini a Gentile, e successivamente, invece (forse in seguito al non felice esito dei suoi progetti accademici in cui pure il filosofo lo aveva sostenuto), uno dei più convinti antigentiliani. Lo studioso, che sarebbe diventato negli anni quaranta uno degli ideologi più importanti del fascismo, accomunava quindi nella sua critica idealismo e positivismo, in quanto entrambi lontani da un concetto essenzialmente politico del diritto, inteso come creazione di uno stato integrale e totalitario. E’ quindi la volta della complessa figura di Julius Evola, com’è noto fino ad un certo momento filosofo idealista sia pure in una prospettiva già diversa da quella di Gentile, successivamente severo critico della cultura e della razionalità filosofica moderna nel nome della Tradizione e quindi più decisamente antigentiliano. Ma la Tarquini fa vedere come il percorso di questo autore sia stato in verità meno lineare di quanto comunemente si ritiene sia rispetto a Gentile che rispetto al fascismo; se si pensa, per esempio, che era il gentiliano Armando Carlini a recensire nel 1925 i Saggi sull’Idealismo magico, che la sua interpretazione anticristiana e imperiale del fascismo (ad esempio in Imperialismo pagano) spingeva alcuni commentatori (per esempio Roberto Pavese e Leonardo Grassi) a stabilire un nesso tra il suo pensiero e quello di Gentile e che agli inizi degli anni trenta, nella sua polemica contro il fascismo antimodernista e tradizionalista di monarchici e nazionalisti, egli si schierava apertamente a difesa di Gentile contro, per esempio, Mario Carli e Curzio Malaparte, e che nel 1933 criticava severamente Orestano che disconosceva gli elementi hegeliani nel fascismo sottolineati invece dall’idealismo gentiliano. Il pensiero di Evola si espresse in termini decisamente e direttamente più critici rispetto alla filosofia attualistica solo nella seconda metà degli anni trenta, sebbene in una direzione ben diversa da quella degli altri antigentiliani, a parte Costamagna di cui veniva condiviso il carattere organico e trascendente (e perciò autenticamente antimo-derno) dello Stato. Ma, in modo più radicale, e in senso opposto rispetto all’orientamento gentiliano, Evola riteneva che uno Stato del genere non potesse basarsi sul primato di una prassi politica di tipo razionalistico, essa stessa prodotto della modernità, bensì su quella fede che fonda i rapporti gerarchici.
Esaminando l’evoluzione del pensiero di Ugo Spirito, la Tarquini passa quindi a chiarire il senso del progressivo allontanamento dalla filosofia del maestro dei suoi allievi più brillanti. Attualista ortodosso e convinto fascista fino al 1927, Spirito iniziava un suo personale itinerario fondando la rivista “Nuovi studi di diritto, economia e politica”, che individuava come centrale la riflessione sulla funzione della filosofia nella società e sul suo rapporto con la scienza, che sarebbe approdata, nel VII congresso nazionale di filosofia del 1929, alla tesi della loro piena identificazione, nel senso di una filosofia che trovasse la propria concretezza nelle scienze sociali; il che, contro l’idea di una filosofia intenta a definire la verità solo in modo teorico e astratto, andava inteso come “attualismo costruttore”, come un sapere storico che si confronta con la realtà, e che ritrova “la vera filosofia nella politica, nella pedagogia, nel diritto, nell’economia, nell’arte”. E’ in questo quadro che veniva poi delineata una nuova economia politica in senso corporativo, basata sull’identità tra stato e individuo e sul carattere statale di tutti i fenomeni economici. Il primato della dimensione etico-politica su quella economica faceva cioè intendere quest’ultima come l’ambito in cui concretizzare lo stato in interiore homine, una prospettiva che nell’originario pensiero gentiliano, secondo Spirito, restava del tutto teorica. Nel 1932, al II convegno di studi corporativi di Ferrara, era quindi formulata la famosa tesi della corporazione proprietaria, che ipotizzava la condivisione della proprietà della corporazione (intesa come un organo dello stato) e la sua gestione tra gli azionisti proprietari (datori di lavoro e lavoratori) proporzionalmente al loro grado gerarchico; il che, nonostante il consenso espresso da Mussolini al giovane studioso, suscitava le decise reazioni da parte dei fascisti antigentiliani (come ad esempio Fanelli o Riccardo Carbonelli) che vedevano nella proposta di Spirito, il cui pensiero pur discendeva da quello di Gentile, la prova che nell’idealismo si potevano rintracciare i presupposti teorici dell’ideologia comunista. Con “La vita come ricerca”, del 1937, Spirito si allontanava poi definitivamente da Gentile, rimproverando all’idealismo di essere rimasto chiuso di fronte a problemi e manifestazioni di indiscutibile valore quali il positivismo, il socialismo, la scienza.
L’ultimo capitolo del libro (dedicato a “partito e governo contro Gentile”, che offre importanti argomenti alla tesi principale della Tarquini, secondo la quale “a determinare la sconfitta del filosofo furono gli antigentiliani del partito fascista e lo stesso Mussolini, decisi a costruire un regime totalitario per certi aspetti diverso da quello teorizzato da Gentile”) prende le mosse dall’orientamento assunto nel corso del tempo da Mussolini nei confronti della riforma scolastica gentiliana del 1923, un “orientamento ambivalente…perché pur non mettendo in discussione alcuni capisaldi della riforma e, primo fra tutti, l’esame di stato, i ministri che si susseguirono continuarono ad apportarvi modifiche”. In effetti, come si è già ricordato in precedenza, i ministri Fedele e Belluzzo, al fine di accelerare i processo di fascistizzazione, avevano apportato cambiamenti, ed anche in seguito, negli anni trenta, tra dichiarazioni di fedeltà e correzioni, all’altalenante operato dei ministri Balbino Giuliano e Francesco D’Ercole e alla “politica dei ritocchi” (mentre la stampa fascista non smetteva di attaccare Gen-tile, per esempio con la penna di Giovanni Preziosi o di Forges Davanzati) seguiva la “controriforma” del ministro Cesare Maria De Vecchi, da sempre antigentiliano e salutato dal consenso di quanti in lui finalmente vedevano (come Paolo Orano) “un vero fascista” alla guida del ministero dell’educazione nazionale. L’aspro scontro, nel 1935, tra Gentile e il nuovo ministro, deciso ad accentrare nelle sue mani tutti i poteri decisionali e ad eliminare ogni autonomia della scuola e dell’università, viveva forse il suo momento più drammatico con la destituzione del filosofo (che viceversa non rinunciava a coniugare il fascismo con la libertà di pensiero e di studio) da direttore della scuola normale di Pisa. E se il diretto intervento di Mussolini e in seguito la sostituzione di De Vecchi con Bottai (il quale nella sua rivista aveva cercato di conciliare le opposte esigenze) permise il suo ritorno alla direzione della prestigiosa istituzione pisana, tuttavia non cessò, negli anni successivi, l’avversione nei suoi confronti da parte del partito nazionale fascista, che lo considerava estraneo alla politica riviluzionaria, e verso il quale il filosofo non aveva mai nascosto il proprio severo giudizio. L’idea gentiliana era che, se la rivoluzione fascista era stata una “rivoluzione di regime” per un nuovo Stato degli italiani e non per la semplice affermazione di una fazione, appunto nello Stato il partito fascista avrebbe dovuto trovare la sua propria definitiva realizzazione, in prospettiva potendosi ipotizzare il suo scioglimento. Sebbene secondo tale logica Gentile avesse, nel 1928, interpretato la trasformazione del Gran Consiglio in organo costituzionale dello Stato, tuttavia non per questo egli aveva rinunziato ad una chiara demarcazione tra i compiti della scuola, intesi quale espressione dello Stato, e quelli dell’associazione fascista della scuola, creata dal partito; in tal modo provocando, ad esempio, nel 1931, l’accusa del segretario Giovanni Giuriati di negare al partito un ruolo nell’educazione e di considerarlo un semplice strumento di propaganda. La discussione circa la natura del partito nazionale fascista, molto sentita nella pubblicistica degli anni trenta, se da una parte accoglieva un orientamento in sintonia con la tesi di Gentile, dall’altra registrava le tesi di quanti (come il direttore dell’istituto nazionale fascista di cultura Arturo Marpicati o i giuristi Gaspare Ambrosini e Vincenzo Zangara), pur riconoscendo al partito la funzione di organo dello stato, tuttavia ne sottolineavano la posizione privilegiata per via del suo carattere di strumento del processo rivoluzionario perseguito dallo stato stesso; il che portava ad escludere, contrariamente a quanto sostenuto dal gentiliano Volpicelli, che il Pnf potesse essere “una necessità contingente e transitoria”, analogamente, del resto, all’affermazione di Sergio Panunzio, secondo cui “il partito fonda lo Stato e quindi lo precede”. In questo contesto vengono seguite quindi dettagliatamente le fasi del duro scontro fra Giovanni Gentile ed il Pnf, specie dopo la nomina a segretario di Achille Starace nel 1931, in merito all’appena ricordato istituto nazionale fascista di cultura, che il filosofo avava fondato nel 1925, e che nel 1937, posto alle dipendenze del direttorio nazionale del partito, divenne istituto nazionale di cultura fascista, in base ad una concezione strettamente politica dell’organismo culturale che provocò di lì a poco le dimissioni di Gentile da presidente, convinto egli com’era che “l’istituto doveva farsi promotore di una nuova cultura che era fascista nella misura in cui fosse stata davvero cultura e non semplice propaganda politica”. E questo non perché, come opportunamente sottolinea la Tarquini contro coloro che suggeriscono una tesi del genere, Gentile intimamente si dissociasse dalla concezione assoluta della politica propria del fascismo, o perchè negasse il valore e l’unicità del partito o la sua funzione di “guardia dello stato” e di “controllore della fede fascista”, bensì per la sua netta convinzione che tutto ciò non autorizzasse la confusione tra la mera propaganda e la cultura, anche quando questa svolgesse una funzione politica.
L’autrice si dichiara anche convinta che la “sconfitta” di Gentile in seno al fascismo non possa essere spiegata però solo dal fatto di avere egli avuto quale avversario il partito, bensì anche dalla posizione di Bottai, ministro dell’educazione nazionale dalla fine del 1936, divenuto in seguito “l’esponente più autorevole di una politica totalitaria che teneva insieme antigentiliani ed ex gentiliani, rispondendo alle istanze delle diverse correnti del fascismo”. Il tema del rapporto tra il fascismo e la filosofia aiuta a cogliere il senso di tale convincimento, se si premette che mentre Gentile, ritenendo ogni concezione politica degna di questo nome una filosofia, legava il fascismo ad una filosofia della prassi (avente come suoi presupposti il socialismo di Marx, il sindacalismo rivoluzionario di Sorel e l’idealismo italiano), i fascisti che lo attaccavano interpretavano invece l’identità di filosofia e politica a vantaggio di quest’ultima, nel senso che la cultura, come ogni forma della realtà, sarebbe una espressione politica. Così, se il gentiliano Codignola affermava che la cultura non avrebbe potuto in alcun modo essere sottoposta a legge estranea a se stessa, lo storico Delio Cantimori, che da Gentile invece si andava allontanando, poteva invece affermare come “vera follia liberale volere porre una sfera della cultura come indipendente dalla politica”. Orbene, la “Critica fascista” di Bottai nel corso degli anni trenta aveva ospitato, in favore del primato della politica, non solo numerosi intellettuali antigentiliani ma anche studiosi come Luigi Volpicelli, con un passato non certamente di antigentiliano, convinto tuttavia della necessità di una nuova scuola avente come punti di riferimento la società, il mondo del lavoro e la politica. Un orientamento, questo, che segnerà appunto le scelte di Bottai ministro, il quale riuscì a coinvolgere sia antigentiliani che ex gentiliani nella importante iniziativa della “Carta della Scuola”, del 1939, che facava della scuola, della G.I.L e dei G.U.F. “uno strumento unitario di educazione fascista” e che indicava nel lavoro manuale lo strumento pedagogico per promuovere l’integrazione dei giovani nella società. Pur presentando, Bottai, la sua Carta come un punto di arrivo del processo iniziato con la riforma del 1923 e pur sottolineando, lo stesso Gentile, gli elementi di continuità tra l’una e l’altra mentre approvava anche l’idea del lavoro manuale, resta il fatto che studiosi già vicini al filosofo (come Volpicelli, Carlini, Spirito, Pellizzi) attribuivano ormai un carattere fascista e rivoluzionario esclusivamente alla nuova scuola di Bottai.
All’inizio degli anni quaranta, dice la Tarquini, Gentile, sebbene ricoprisse ancora responsabilità di rilievo (senatore del regno, socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, fondatore della Domus galileiana, direttore del “Giornale critico della filosofia italiana”, della scuola Normale di Pisa, dell’istituto per il medio e l’estremo oriente, dell’istituto di studi germanici, della fondazione Treccani per l’Enciclopedia italiana), svolgeva tuttavia un ruolo marginale nel regime fascista, nel senso che “intellettuali o politici, gentiliani o antigentiliani, i fascisti smisero di attaccarlo, o di invocare il suo magistero, per affermare l’identità politica del regime”. Ne sarebbero testimonianza, ad esempio, gli scritti pubblicati su “Dottrina fascista”, il mensile della “Scuola di mistica fascista” fondata da Niccolò Giani nel 1930, che “non fece dell’antigentilianesimo il tratto caratteristico della propria identità politica, nel senso che la distanza fra Gentile e la politica totalitaria del regime fu presentata come un fatto scontato”. In altri termini, la riforma del 1923, adeguatamente storicizzata, fu descritta “come un provvedimento…voluto da un filosofo non fascista, che…aveva contribuito alla creazione della scuola del regime”. Ed anche il convegno nazionale di mistica del 1940, con la partecipazione di molti dei protagonisti della campagna antigentiliana degli anni trenta, ribadì il primato della politica sulla cultura, la funzione del partito quale organo supremo del fascismo, il culto del Duce quale fondamento della dottrina fascista, il rifiuto di qualsiasi filosofia, compreso l’idealismo, come presupposto della stessa, pur condividendo tuttavia con Gentile l’interpretazione del fascismo come fenomeno nuovo e moderno ed il fatto di non richiamarsi ai valori tradizionali del cattolicesimo. Sempre nel 1940, di una cultura politica a cui offrivano contributi sia antigentiliani che ex gentiliani è altresì eloquente manifestazione il “Dizionario di politica” del Pnf, di cui ideologo e direttore era l’autorevole filologo Antonino Pagliaro, appassionato militante fascista e antigentiliano, che esplicitamente sottolineava il carattere politico dell’opera, quasi in contrapposizione allo spirito dell’Enciclopedia Italiana. Coerentemente, erano estensori dell’opera, insieme ad altri importanti antigentiliani come Costamagna e Panunzio, lo storico delle dottrine politiche Carlo Curcio (che anni prima aveva definito il Pnf “l’anima dello stato fascista”), come pure il filosofo del diritto Giacomo Perticone, che rivendicava, contro la tesi gentiliana del partito come fazione, l’idea di una parte “capace di dominare il tutto”. Non mancavano tuttavia nel dizionario anche numerose voci affidate ad un esponente di una cultura che proveniva dall’idealismo gentiliano, come il giurista Felice Battaglia, il quale attribuiva al filosofo la definizione filosofica del concetto di Stato, elaborata poi autonomamente dal fascismo in sede politica.
L’epilogo dell’avvincente e complessa vicenda, nelle finali (e per tanti lettori sicuramente amare) considerazioni della Tarquini, richiederebbe, come ella nota, “la penna di un grande narratore”, tanto esso è tragico e ambiguo, per “l’assurdo gioco di specchi che moltiplicò il numero degli uomini”. Ed infatti, aggiunge la studiosa, “nell’Italia del 1944 le identità si moltiplicarono per cui gli avversari più radicali di Gentile, quelli che lungo il ventennio l’avevano accusato di essere un liberale e di non poter rappresentare la cultura fascista, si dichiararono antifascisti in quanto antigentiliani”; a partire da Pagliaro per passare a Del Vecchio, Spinetti, Carella, Granata, Brunati, Ottaviano, Curcio e a tanti altri che si accingevano a dimenticare e a far dimenticare il proprio passato. In pratica, conclude l’autrice dell’ottimo libro, “nei mesi che seguirono l’uccisione del filosofo la maggior parte degli intellettuali italiani dichiararono al tribunale per l’epurazione di essere stati antigentiliani già dal 1922 e di essersi opposti al fascismo ufficiale che aveva nel filosofo idealista il suo più importante ideologo”. Quanto a Gentile, proprio l’accusa di essere stato il teorico del regime gli era costata la vita. “Il suo percorso nel fascismo certo si era concluso con più coerenza di quello di altri che mentirono sul proprio passato o disconobbero le proprie responsabilità. Dei suoi critici come dei suoi sostenitori, infatti, una cosa è certa: tutti furono fascisti convinti, anche se nel 1944 in pochi lo ammisero”.

Titolo Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista
Autore Tarquini Alessandra
Prezzo € 29,00
Dati 2009, 381 p., brossura
Editore Il Mulino  (collana Il Mulino/Ricerca)