Una conferma ce ne viene dall’intervista di Roberto Azzalin:
Carnago, 26 febbraio 2005
Sono le ore 10.00 e arrivo al mio appuntamento dal mio pilota della Regia Aeronautica
a Carnago dove lui abita con la moglie. Alla porta della sua villetta, ad attendermi
è proprio il Signor Fiorenzo Macchi che guarda al polso il suo altimetro
ed orologio compiacendosi della mia precisione ad arrivare all’appuntamento
previsto con straordinaria puntualità. Ad accogliermi con lui c’è
anche il suo volpino, la sua mascotte, in termini aeronautici, che scodinzolandomi
mi fa una gran festa.
Il
mio pilota è molto impaziente e in un men che non si dica mi fa accomodare
nel suo studio completamente arredato con libri e manuali aeronautici; mi par
proprio di assaporare l’atmosfera adatta per il mio piacevole colloquio.
Il mio pilota, Classe 1919, prima di sedersi accanto a me prende tra le mani
un meraviglioso modellino del biplano C.R. 32 in argento e me lo mostra orgogliosamente;
vede mi dice, questo era il gioiello progettato dall’ingegner Rosatelli,
dopo ha creato il C.R. 42, poi venne l’apparecchio dell’ingegner
Gabrielli, il Fiat G. 50, io li ho pilotati tutti.
Nel 1938 iniziai come pilota sportivo a Vizzola con il volo a vela, lì
conobbi Plinio Rovesti, l’insigne progettista di alianti, i primi lanci
li facemmo dal Campo dei Fiori.
Con l’entrata in Guerra dell’Italia diventai pilota da caccia, ma
a dire il vero a ben pensarci ero forse l’unico qui della zona a combattere
nella caccia, molti avevano scelto infatti la specialità bombardamento,
in quanto il campo di volo di questi apparecchi, gli onnipresenti trimotori
Siai Marchetti SM. 79 era alla Malpensa e quindi i piloti della brughiera erano
anche più vicini a casa e alle loro famiglie.
Io ero al Campo di Volo di Ponte San Pietro a Caltagirone, da lì a Malta
ci separavano soltanto 90 km; era il 1941, attaccavamo i convogli inglesi e
scortavamo gli SM 79 “Gobbi Maledetti” come li chiamavano gli inglesi;
noi italiani non conoscevamo la navigazione aerea, eravamo allo sbaraglio. Successivamente,
nel 1942 a Gorizia avevamo in dotazione il nuovo Macchi 200 ideato dall’Ingegner
Mario Castoldi, era un aereo molto pericoloso, andava in autorotazione e siccome
numerosi piloti a causa di questo difetto erano morti, molti infatti non volevano
pilotare questo caccia a causa della sua evidente pericolosità. Da Varese,
venne allora il pilota collaudatore Guido Carestiato ad istruirci su come gestire
questo caccia ribelle e pressoché indomabile.
Con il Macchi 200, Carestiato tagliava l’erba del campo di volo con l’elica
e ci dimostrava come far fronte ad un atterraggio veramente molto difficile,
ricordo a Campoformido quanti piloti alle prime armi con questa macchina avevano
rischiato in atterraggio di andare a sbattere ed infilarsi dentro gli Hangar.
Il Comandante Guido Carestiato ci soggiogava, non era di molte parole, bisognava
ascoltarlo, era il collaudatore per eccellenza della Macchi di Varese, era una
persona veramente burbera ma a volte anche affabile, era evasivo nelle risposte,
ci intimoriva. A noi piloti “pivellini” non ci diceva mai che eravamo
dei buoni piloti, anche quando meritavamo davvero di sentircelo dire. Forse
ci avrebbe fatto bene sentircelo dire. In squadriglia ci diceva di cercare di
essere sempre il migliore rispetto agli altri, eravamo in dodici, si cercava
sempre infatti di decollare per primo.
Ricordo che durante il mio primo volo a bordo del Macchi 200 mi si era rotta
la manetta dei comandi e non riuscivo a diminuire la velocità dell’apparecchio
che andava ormai ad una velocità forte e costante ed inesorabilmente
incontrollabile, il pilota Mascellani decollò e affiancandosi all’ala
del mio apparecchio mi faceva segno di lanciarmi con la mano urlando a squarcia
gola, anche se io evidentemente non potevo sentirlo per il rumore dei motori
dei due caccia, perché non avevamo neanche a bordo la radio e non potevamo
comunicare altrimenti.
Togliendo il contatto, il Macchi 200 si poteva facilmente incendiare non solo
in volo, ma anche in atterraggio. Ricordo che quella volta, ho tenuto in volo
l’apparecchio, perché non ne volevo sapere di lanciarmi con il
paracadute, e di perdere quell’originale macchina volante con la “gobba”
che si sarebbe schiantata non so dove; alla fine, a carburante finalmente esaurito,
faticosamente ho aperto il carrello fino ad atterrare alla bell’e meglio
andando a sbattere contro la rete del campo di volo. Il mio apparecchio anche
se un po’ mal ridotto era salvo. Questo è accaduto a Campoformido
vicino ad Udine.
Da lì fui poi inviato a Caltagirone. Senza preparazione, senza una rotta
da seguire. Mi pare impossibile ancora oggi pensare all’incoscienza che
ci animava. Il mio Comandante mi disse che per arrivare a Caltagirone, dovevo
seguire, come punto di riferimento, dall’alto la linea ferroviaria.
E così feci. Che pazzia.
A Malta, con un apparecchio da caccia Reggiane 2001 ho abbattuto un caccia inglese
Hawker Hurricane I ed un bombardiere bimotore medio inglese Bristol Beaufighter
Mk I. Mi ricordo che dopo l’abbattimento dei velivoli nemici a volte i
nostri ufficiali non s’interessavano più di tanto a segnalare le
nostre vittorie per eventuali medaglie o riconoscimenti futuri: magari qualcuno
di noi non sarebbe neanche più tornato. A cosa sarebbe servito?
Noi cercavamo di portare a casa la cosa che più ci era importante: la
nostra pelle, magari senza nessuna medaglia da appuntare alla divisa, ma vivi!
Io ho combattuto nella 358a Squadriglia , nella 152a e nella 150a.
Nella mia vita di combattente dell’aria, ho avuto la fortuna di conoscere
una persona che allora lavorava all’Alfa Romeo. Al caccia Reggiane 2001
venne assegnato il motore Mercedes, prodotto su licenza appunto all’Alfa
Romeo. Questa persona che appunto lavorava all’Alfa Romeo, mi garantì
che il motore del mio caccia non mi avrebbe mai dato noie di alcun tipo, senza
problemi tecnici al motore, non si sarebbe cioè mai bloccato ( perché
me lo avrebbe curato lui personalmente in ogni seppur minimo particolare ) e
difatti non ho mai incontrato alcun problema al motore del mio caccia: il Reggiane
2001. Gli fui molto riconoscente.
Ho pilotato anche il leggendario caccia tedesco Messerschmitt Bf 109, feci l’abilitazione
vicino a Viareggio con i piloti tedeschi che, a dire il vero non si fidavano
molto dei piloti della Regia Aeronautica.
I piloti italiani che erano dei leali combattenti, in volo cercavano di abbattere
l’aereo nemico ma cercavano in tutti i modi, cavallerescamente di non
uccidere il pilota, speravamo sempre che si potesse lanciare con il paracadute
e salvarsi la pelle.
Ciò non si poteva dire degli inglesi. Ho ancora sotto gli occhi l’immagine
di un amico della mia squadriglia che gettandosi con il paracadute dal suo apparecchio
in fiamme veniva falciato dalle raffiche delle mitraglie di uno Spitfire; questa,
ragazzo mio, è la guerra.
Si poteva arrivare con il Macchi 200 sino a 6/6.500 metri ma gli Spitfire piombavano
da oltre 10.000 metri e noi oltre a non avere molta autonomia di carburante,
con solo due mitragliatrici sulle ali spesso dovevamo rientrare in Sardegna
per il rifornimento di carburante. Combattevamo in minoranza non solo numerica
contro gli inglesi ma anche tecnica.
Ricordo i gran torcicollo che avevo in volo, sempre a cercare gli Spitfire o
gli Hurricane che piombavano dal nulla come dei diavoli. I piloti inglesi preferivano
la picchiata al combattimento e piombavano dall’alto come la grandine.
Noi sparavamo all’impazzata i nostri colpi dalle due mitraglie alari,
gli inglesi che oltre ad avere la radio a bordo sputavano fuoco all’inverosimile
dalle ali: una vera tempesta di fuoco.
Erano combattimenti impari. L’abilità non era certo della macchina
ma del pilota italiano che era veramente un eroe. Si cercava di richiamare l’aereo
ma spesso perdevamo i sensi, non ci vedevamo più, il Macchi 200 era sprovvisto
della capotte. Molti piloti spesso perdevano quota e si inabissavano in mare.
Spesso i piloti che rientravano in Sardegna per il rifornimento, finivano in
mare perché non ce la facevano a raggiungere l’Isola.
A volte per l’impreparazione non sapevamo gestire l’aereo che ci
era stato affidato, bisognava tenerlo al minimo e sfruttarlo solo durante il
combattimento che poteva essere anche molto lungo, altrimenti o in un modo o
nell’altro si perdeva la gestione dell’apparecchio e finiva in una
tragedia. Non avevamo una strumentazione adatta, azzurro sopra, azzurro sotto,
molti atterravano in Tunisia altri alle Egadi senza sapere dove erano.
Il Macchi MC 200 ed il Fiat G. 50 furono i primi caccia in dotazione alla Regia
Aeronautica, erano aerei estremamente essenziali ma dalla linea sportiva. I
Macchi 202 e 205 erano invece i più begli aerei, non solo tra gli aerei
italiani, erano aerei belli da vedere, piacevoli da pilotare, erano l’orgoglio
della prestigiosissima azienda aeronautica varesina, il cui dirigente tecnico
era il grande Castoldi.
Mi ricordo che per la distrazione di alcuni avieri una notte ci fu messa anche
dell’acqua distillata nei serbatoi degli apparecchi anziché il
carburante che si mescolava fatalmente alla benzina.
Mi chiedo ancora oggi come io mi sia potuto salvare dopo queste vicissitudini
mentre altri piloti sono morti giovanissimi in missioni belliche o in terribili
incidenti di collaudo. Non sono mai stato abbattuto. Come è possibile
che io abbia potuto salvarmi? Me lo chiedo ancora. Molti miei amici non li ho
più visti tornare al campo di volo. Andavamo contro la morte e non ci
rendevamo conto. Alla sera tra piloti ci si trovava a giocare magari a poker,
il giorno dopo molti di essi non rientravano alla base. Avevamo sì forse
qualche aereo a disposizione ma non più i piloti che cadevano dal cielo
come le mosche.
A volte qualcuno si salvava perché magari cadendo in mare sapeva nuotare,
ma erano casi rari, molto rari.
E’ triste dover pensare che molti giovani donarono i loro vent’anni
all’Italia e oggi nessuno si ricorda o vuole ricordare le loro imprese,
i loro eroismi.
Strano Paese il nostro, strano Paese l’Italia…
L’ intervista finisce qui, il mio pilota accarezza con
tenerezza le ali del suo biplano d’argento e lo ripone con religiosa delicatezza
sullo scaffale vicino ai libri aeronautici, mi accorgo che gli si inumidiscono
anche un po’ gli occhi. La sua mascotte appoggia il suo musino sulla mia
gamba.
“Caro dottore, caro amico, l’aspetto ancora, venga a trovarmi, ho
un’altra storia da raccontarle” insiste il mio pilota salutandomi
con una cordiale stretta di mano, la stessa mano che aveva lottato tanti anni
fa con la manetta ingrata del suo primo Macchi 200, che si era rotta in volo,
ma che lui aveva sapientemente dominato fino a riportare il suo nuovo apparecchio
a terra…ancora una volta il mio pilota aveva avuto la meglio sulla sua
macchina volante…
Dottor Roberto Azzalin