MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO
di Francesco Fatica

Capitolo X

Il processo degli 88 fascisti

L'organizzazione clandestina fascista in Calabria merita una particolare menzione, sia per il numero degli imputati nel processo che si tenne a Catanzaro nell'aprile 1945, che per l'importanza delle strutture finalizzate al sabotaggio ed alla guerriglia che vennero scoperte dagli inquirenti.
    Dalle indagini dei CC.RR. (Carabinieri Reali) vennero portati in luce quattro centri operativi clandestini: a Catanzaro, a Nicastro - Sambiase (oggi Lamezia Terme), a Crotone ed a Cosenza. Ma, come si può ben capire, fu adottata ogni tipo di precauzione per sminuire agli occhi degli inquirenti la vastità e l'efficienza dell'organizzazione che operava clandestinamente anche in molte altre zone.
    I CC.RR. di Nicastro fin dal settembre '43 avevano dovuto notare le manifestazioni di un'attività clandestina fascista nel Nicastrese che andò man mano intensificandosi fino ad arrivare ad attentati dinamitardi intimidatori contro strutture del partito comunista e abitazioni di personalità antifasciste.
Melacrinis    Furono arrestati alcuni giovanissimi, già iscritti alla GIL (Gioventù Italiana del Littorio), comandati dallo studente liceale Lionello Fiore Melacrinis: un biondino amato da tutti, bello, bravo, studioso, ardito e trascinatore.
    Era una squadra agguerrita di adolescenti delle scuole superiori, avevano raccolto un notevole armamentario bellico e si preparavano a ritirarsi sulle montaghe delle Pre Sila, che sovrastano Nicastro, per passare a vere e proprie operazioni di guerriglia.
    Nel frattempo tentativi andati però a vuoto, di sabotaggi di ponti a Sambiase ed a Soverato, portarono alla scoperta di altri clandestini e di notevole quantità di materiale esplodente.
    Ancora una scoperta dei CC.RR. questa volta nei pressi di Cosenza: il sottotenente Vittorio Bruni aveva consegnato armi del Regio Esercito ai clandestini fascisti.
    Intanto, per una fortuita coincidenza, quasi contemporaneamente veniva segnalato nei pressi di Crotone un trasporto clandestino di bombe a mano che portò, dopo varie vicissitudini, al rinvenimento di un notevole deposito di armi da guerra  in un casolare di proprietà del marchese Gaetano Morelli, maggiore dell'esercito in congedo.
    Morelli aveva sacrificato beni personali per finanziare l'organizzazione di una squadra che era ormai pronta a prendere la via della Sila per operare con sufficiente armamento, vettovaglie ed attrezzature. Tutto questo non fu ovviamente rivelato al processo ma l'entità del materiale bellico ritrovato era un indizio abbastanza eloquente. Le vettovaglie invece furono del tutto trascurate. 
    Le indagini furono spinte in tutte le direzioni e fu relativamente facile trovare indizi che incriminarono a Catanzaro alcuni dei promotori dell'organizzazione e portarono alla scoperta di altri depositi di armi e munizioni.
    Il tenente Pietro Capocasale era stato prima dell'arresto, un attivo coordinatore dell'organizzazione clandestina. Aveva tessuto una fitta rete di collegamenti per conto del principe Valerio Pignatelli con i gruppi citati e con molti altri rimasti clandestini, disseminati in tutta la Calabria.
    Dopo breve latitanza fu arrestato a Bari l'avv. Luigi Filosa che aveva raccolto attorno a sè in Cosenza un gruppo di professionisti, studenti universitari e fascisti di ogni estrazione sociale, giovani ed anziani, di Cosenza e della provincia, ed era in collegamento anche col resto della Calabria, con la Puglia e con Napoli. 
    Essi si preparavano alla guerriglia raccogliendo armi e vettovaglie, ma si preparavano anche ad effettuare sabotaggi in grande stile, prendendo di mira i tralicci dell'alta tensione che portavano l'elettricità prodotta dalle centrali idroelettriche della Sila.
    Le centrali erano sorvegliate da reparti "alleati", ma le linee elettriche restavano vulnerabilissime1.
    Il tenente Capocasale, nei suoi giri di ispezione e coordinamento, aveva raccomandato in particolare ai ragazzi di Nicastro di mantenersi calmi per poter meglio prepararsi ad intervenire non appena le circostanze si fossero mostrate favorevoli, evitando così di compromettere la clandestinità con azioni troppo scoperte in un piccolo centro, dove , le indagini potevano essere mirate più facilmente. Ma le sue raccomandazioni furono spesso trasgredite, sia per la linea dura che il notaio Ugo Notaro, anziano fascista intransigente, capitano di fanteria in congedo, voleva imporre, sia per la naturale irruenza di molti giovanissimi clandestini che, autonomamente e spavaldamente, continuarono ad usare esplosivi anche dopo l'arresto dei loro coetanei più sfortunati.
    Gli "Alleati", secondo un clichet ormai abitudinario, lasciarono il processo agli italiani di Badoglio. Il Tribunale Militare Territoriale della Calabria, con sede a Catanzaro, fu investito della responsabilità di istruirlo. Ma gli ufficiali del Regio Esercito non dimostrarono affatto entusiasmo e tanto meno zelo per l'incarico ricevuto, anzi adoperarono ogni possibile solerzia per limitarne la portata2.
    Può apparire strano che un tribunale militare in tempo di guerra non operi nell'ambito del codice penale militare di guerra.
    Bande armate, fucilazioni, invece, furono argomenti immediatamente scartati. Così essi passarono disinvoltamente all'art. 270 del codice penale: associazione sovversiva. Ma anche questa imputazione venne successivamente derubricata, con l'aiuto degli avvocati della difesa, in associazione a delinquere 
Lionello Fiore Melacrinis    Francesco Tigani Sava, nel suo documentato studio sul "processo degli 88", afferma che i giudici fecero una sentenza destinata ad essere facilmente annullata per mettersi al sicuro contro eventuali capovolgimenti di fronte, ma non si può escludere che essi sentissero, sia pure sotto la divisa dell'esercito regio, battere ancora un cuore che non riusciva a dimenticare del tutto l'amore per l'Italia e per i suoi figli. 
    Analogamente il magg. Oreste Pecorella capo di stato maggiore del SIM (Servizio informazioni militari), che aveva redatto il rapporto sull'argomento con oggetto: movimento fascista nell'Italia meridionale, sfumò molto le responsabilità degli aderenti alla cospirazione, negò che fra i vari gruppi clandestini scoperti esistessero collegamenti. Addirittura poi, venuto a conoscenza delle notizie sulle armi segrete tedesche (bomba atomica, la nube misteriosa sul nord Europa, l'offensiva di Von Rustedt), andò a trovare Nando Di Nardo, detenuto nella certosa di Padula, trasformata in campo di concentramento per duemila fascisti, e gli dichiarò di aver evitato di citare nel suo rapporto tanti particolari a sua conoscenza, che avrebbero indubbiamente aggravato la posizione degli imputati e che avrebbero consentito il collegamento del processo degli 88 fascisti di Calabria con quello del principe Valerio Pignatelli e altri fascisti napoletani e calabresi3.
    In quell'occasione Pecorella, dopo aver usato parole di stima e di solidarietà, quasi di complicità, si raccomandò apertamente affinchè Di Nardo convincesse Pignatelli a non infierire su di lui nel caso che le parti dovessero invertirsi. Il 6 aprile del '45, dopo circa un anno di istruttoria, i giudici, finito il dibattimento, si riunirono in camera di consiglio4.
    Le strade di Catanzaro brulicavano di folla; fascisti e simpatizzanti si agitavano minacciosamente sotto il naso di carabinieri e poliziotti radunati in tutta fretta.
    L'aula magna del tribunale, affollatissima di pubblico, era vigilata dall'alto attraverso i finestroni, da carabinieri armati di mitra ostentatamente rivolti in basso verso il pubblico.
    La Corte temporeggiava. Finalmente, appena poco prima dell'alba, le strade si sfollarono; dopo ben 19 ore di camera di consiglio, i giudici si decisero a leggere la sentenza: 10 anni di reclusione per Pietro Capocasale, 9 anni per Gaetano Morelli, 8 anni per Luigi Filosa e per Attilio e Giuseppe Scola (di Crotone) ancora 8 anni per Antonio Colosimo, Nino Gimigliano e Aldo Paparo (di Catanzaro) nonchè Ugo Notaro (di Nicastro), 6 anni per chi fu ritenuto partecipante più attivo, mentre 4 anni per i semplici partecipanti. Infine ai minorenni 24 mesi di reclusione. Altri imputati per cui non era stato possibile raggiungere la prova di colpevolezza, vennero assolti.
    Era l'alba del 7 aprile.
    Appena letta la sentenza, una sorta di ruggito di rabbia sgorgò dalla folla e gli imputati in piedi di fronte ai giudici allibiti esplosero nel canto di "Giovinezza"; era un raptus generale, i carabinieri sui finestroni, confusi, non sapevano cosa fare.
    Più tardi, nel chiuso del furgone cellulare che li riportava in carcere, il mastodontico brigadiere Putortì e i carabinieri di scorta, con gli occhi rossi dalle lacrime trattenute, si unirono ai condannati nel canto di "Giovinezza".

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